Frammenti d'identità
«Mai otterrò di rimetterti insieme interamente pezzo a pezzo, incollato e connesso al punto giusto». È un verso di Sylvia Plath riferito al padre, che suggerisce come persino delle persone che conosciamo più da vicino è impossibile ricostruire un’immagine fedele ricomponendo frammenti parziali. A maggior ragione questo vale per ogni essere umano: la realtà di ciascuno, unica e irripetibile, per definizione eccede sempre le nostre capacità di rappresentarla. E questo è ancora più vero per le persone che non conosciamo e che identifichiamo (sempre riduttivamente) come membri di una categoria: gli immigrati, i giovani, gli insegnanti, i disoccupati...
Le categorie sono necessarie per affrontare una realtà sempre più complessa, ma non possono essere irrigidite: altrimenti si trasformano in stereotipi e pregiudizi, che anziché aiutarci a comprendere ci rendono ottusi. Perché le categorie isolano un solo elemento di una identità che è sempre molto più ricca, e poi lo rendono assoluto, come se fosse l’unico rilevante: è appunto il movimento dell’astrazione, che significa separare ciò che è unito, tirarlo fuori (ab-trahere) da quella complessità caotica che è la concretezza della vita.
Così considerare una donna eritrea, per fare un esempio, come una «immigrata» ci impedisce di vederla anche come una mamma preoccupata di dare un futuro migliore ai suoi figli, o come una figlia preoccupata per gli anziani genitori lasciati in un Paese difficile, o come donna in cerca di lavoro in un mondo in cui è già difficile trovarlo per chi ha professionalità adeguate... Ciò che ci divide cancella così ciò che ci unisce in una comune «condizione umana», come scriveva Hannah Arendt. L’unica cura alle derive dell’astrazione è la concretezza, l’incontro con l’altro nella sua interezza e unicità.
L’articolo è pubblicato nel numero di novembre del «Messaggero di sant’Antonio» e nella corrispondente versione digitale.