Scrivere per esistere
«Le impronte sul mare sono le più crudeli: a parte chi le lascia, nessun altro le vede». Questa frase struggente della scrittrice siciliana Evelina Santangelo si trova nel romanzo Da un altro mondo ed è stata scelta da Medici Senza Frontiere come pensiero ispiratore della sua campagna di comunicazione sulla situazione del Mediterraneo, terra di nessuno da dove le navi di salvataggio delle associazioni di volontari sono state fatte sparire per volontà politica, fermate ai porti con le motivazioni amministrative più disparate pur di farle smettere di aiutare i migranti nella traversata per salvarsi la vita.
Evelina Santangelo, due occhi luminosi su un viso forte che è facile associare al cliché della donna del Sud, sa di cosa scrive quando racconta di migrazione, ma forse lo sanno tutti i siciliani, perché l’isola è il primo fronte di arrivo della speranza delle centinaia di persone che affrontano dolore, paura e il rischio di morte per cercare un’esistenza migliore. Cosa può fare una scrittrice davanti a un dramma tanto più grande di qualunque sua parola? La risposta di Evelina è il suo mestiere: non smettere di raccontare. Senza racconto quelle persone non esistono nella coscienza di nessuno e lei non è la sola a pensarlo.
La ragione principale del contrasto politico alle navi di salvataggio sul tratto di mare tra Italia e Libia non è, infatti, quella di evitare lo sbarco di dieci, venti o cinquanta persone in più, quanto di fare in modo che quello che sta avvenendo nel Mediterraneo non abbia più chi lo racconta all’opinione pubblica. In questo modo, però, il silenzio finisce per uccidere più dell’acqua salata. Gli sbarchi sulle coste italiane sono diminuiti, ci dicono per rassicurare le coscienze, ma quello che non spiegano è che non dipende dal fatto che le persone abbiano smesso di fuggire dai loro Paesi in miseria o in guerra. La vera ragione è che il loro viaggio viene spezzato alle coste della Libia, dove strutture finanziate anche da governi di Paesi europei trattengono i flussi di donne, uomini e bimbi in condizioni disumane di tortura e abuso, come testimoniano le tracce oscene sui corpi di coloro che riescono comunque ad arrivare da questa parte del mare.
Evelina Santangelo ha scritto, quindi, un romanzo che è già un manifesto di resistenza narrativa. Non è sola. Sta scrivendo anche Elena Stancanelli, un’altra scrittrice che è salita a bordo della Mar Ionio, l’unica nave dopo molti mesi a poter solcare il braccio di mare tra Italia e Libia per tornare a raccontare cosa vi accade e magari, se possibile, salvare qualcuno. Il diario di Stancanelli restituisce la storia di una nave che non appartiene a una organizzazione non governativa (le famose ong), ma batte bandiera italiana e sta in acqua grazie al contributo spontaneo di centinaia di persone della cosiddetta società civile, uomini e donne stanche della politica dei porti e dei cuori chiusi, degli esseri umani lasciati a morire in mare per mero calcolo politico.
Sta scrivendo e parlando anche Sandro Veronesi, che ha deciso che tacere non era più possibile e ha riunito intorno a sé decine di altri scrittori e scrittrici che stanno usando il proprio mestiere per dare parole nuove a questo brutto pezzo di storia. C’è qualcosa di miracoloso in questa azione non governativa, così la chiamano i primi promotori, qualcosa che, attraverso un fatto operante e concreto, spezza l’inedia dello stare a guardare e lo fa con gli strumenti della legalità, della generosità e della consapevolezza. Non succederà niente di buono in quel mare se non lo facciamo succedere, devono aver pensato i promotori, tra i quali ci sono operatori sociali, volontari, giornalisti e artisti, tutti col sogno di una comunità mediterranea che sembra diventata utopica e minoritaria davanti alla ferocia dei commenti disumani sui social network che inneggiano alla morte dei migranti.
Intorno all’esistenza della nave e della sua rete di supporto – che non a caso si chiama Mediterranea – si sono mobilitate decine di persone, mettendo facce, voci e corpi in gioco sui palchi e sulle navi di appoggio nella speranza di suscitare un’onda di solidarietà più alta di quelle del mare dove ogni giorno continuano a morire uomini, donne e bambini come i nostri. In questa speranza c’è una consapevolezza chiara della geografia del Mediterraneo. Sappiamo che c’è una via di mare che è pericolosa e infida, territorio di scontro tra il senso di umanità e l’opportunità politica che fa cassa con gli egoismi sociali e le paure xenofobe, ma sappiamo che c’è anche una via di terra, un filo rosso sottile e mite che di città in città muove persone che da sole non potrebbero nulla, che si sentono politicamente rappresentate da nessuno, ma che sanno che stare a guardare non si può più.
«Non lo facciamo solo per salvare, ma per salvarci» continuano a ripetere nelle serate dove i teatri – gratuitamente offerti in sostegno in molte città – si riempiono di persone solidali, di musica e di parole forti. Salvarci e non solo salvare, è questa la chiave di questa mobilitazione semplice e pacifica. Evelina Santangelo, il cui romanzo in quei luoghi viene letto ad alta voce con la ritualità che si usa coi testi ispiratori, è un esempio silenzioso del ruolo degli intellettuali in momenti storici come questo. Schiva per indole e cultura, non ha mai usato la retorica dell’azione di buon cuore. Per lei e per gli altri non è una buona azione, ma la sola azione possibile per evitare che, convinti di salvare l’integrità di un finto confine, si finisca tutti per perdere la propria.
L’articolo è pubblicato nel numero di novembre del «Messaggero di sant’Antonio» e nella corrispondente versione digitale.