Le mani delle capperaie
Le mani delle capperaie sono saette. Quando, la prima volta, all’isola di Salina, nei piccoli campi di Pollara, le vidi muoversi fra le foglie delle piante, ne rimasi impressionato. Nemmeno i tempi più veloci della macchina fotografica riuscivano a fermarne le velocità.
Una buona pianta, dopo dieci anni di vita, riesce a dare anche trenta chili di capperi a stagione. Ma raccoglierli, fra maggio e luglio, è fatica dura. Non ci sono macchine possibili ad aiutare le raccoglitrici, la sveglia è prima dell’alba, si lavora a mano, si sta chinati per ore.
Per decenni e decenni è stato un mestiere da donne. «Sono più veloci», dicono gli uomini. Un alibi fin troppo comodo. Oggi molte donne preferiscono lavorare negli alberghi e nei ristoranti. Si affacciano raccoglitori nordafricani. Ma le mani di Amelia le ricordo bene: erano davvero fulmini, mi sarebbe piaciuto vederla a un pianoforte: afferravano un rametto con una mano, staccavano i boccioli con due dita dell’altra mano e li lasciano scivolare in una sacca di tela appesa al grembiule.
Una buona raccoglitrice riesce a portare a casa venti, venticinque chili ogni giorno. Amelia, mi raccontarono, era capace di raccogliere oltre trenta chili. Si lavora dalle cinque del mattino alle undici. Poi il sole diventa impietoso. Si ripasserà sulla stessa pianta ogni settimana a cercare nuovi boccioli prima che diventino fiore.
Guardando le mani delle capperaie ho immaginato un libro sulle mani delle donne.