L'eremo sul monte
Percorrendo la SS 67, poco prima dell’abitato di Dovadola (siamo in provincia di Forlì), un cartello segnaletico, posto all’inizio di un anonimo stradello, indica «Montepaolo». Chi imbocca questa via, dopo 7 chilometri di curve, giunge a uno di quei luoghi che possiamo definire, senza paura di sbagliare, «dell’anima». Un piccolo santuario accoglie infatti i visitatori, facendo capolino all’improvviso, in mezzo ai boschi. Scoprirò dopo, grazie alla mia guida di eccezione, Gabriele Zelli, appassionato di storia locale nonché ex sindaco di Dovadola, che il bosco è stato tutto piantumato dalla comunità francescana che fino a poco tempo fa abitava questo luogo. Perché non siamo in un posto qualsiasi. Qui, esattamente 800 anni fa, nell’estate del 1221, giunse frate Antonio. Egli aveva accolto l’invito di uno sparuto gruppo di frati incontrati ad Assisi durante il capitolo delle stuoie, contenti di poter avere tra loro un sacerdote che avrebbe celebrato la Messa. E qui restò poco più di un anno, cioè fino a quando, per un altro di quegli strani casi del destino (ma siamo certi che si tratti solo di destino?), fu chiamato a sostituire il predicatore che, in una importante occasione, avrebbe dovuto tenere l’omelia nei pressi dell’abbazia di San Mercuriale a Forlì, manifestando così la forza di quella parola che l’ha fatto apprezzare dal mondo intero.
Ma torniamo al nostro santuario. Quello che possiamo ammirare ai nostri giorni non risale all’epoca di Antonio. Pare, infatti, che i frati al tempo avessero un piccolo e raffazzonato convento, ma che usassero trascorrere parecchio del loro tempo nei vari anfratti offerti dal territorio, in solitario raccoglimento e preghiera. Molte di quelle grotte naturali (e pure il convento) ora non ci sono più: la zona è infatti soggetta a frequenti frane e smottamenti. Per questo, quando fu deciso di fare memoria del passaggio di Antonio in questo luogo, venne scelta la sommità del monte, più stabile, dove fu costruita la chiesa che venne consacrata il 7 settembre 1913. Narra la storia che già un altro oratorio era stato costruito in questo monte, eretto proprio nel luogo in cui si trovava la cosiddetta «grotta di Antonio», dove il nostro Santo amava rifugiarsi: a farlo edificare, nel 1629, fu un nobile ravennate, tal Giacomo di Simone Paganelli, abitante a Castrocaro, il quale voleva così rendere grazie al Santo per averlo aiutato durante una grave malattia. Ma ben presto l’oratorio venne distrutto da uno smottamento e ne rimasero solo i ruderi.
La grotta di Antonio, però, resta ancora, sulle pendici del grande colle, poco distante dal santuario: un sentiero (costellato da una serie di rappresentazioni pittoriche della vita del Santo firmate da Lorenzo Ceregato) vi conduce il pellegrino. In realtà pure questa grotta è stata ricostruita, ma possiamo supporre che forse non si trovi troppo distante dal luogo originario. Qui una statua in terracotta del Santo, opera del maestro Ballanti Graziani di Faenza, accoglie il pellegrino, quasi invitandolo a raccogliersi in preghiera come fece tante volte Antonio. La mia guida mi informa che, ancora oggi, questo è il luogo più amato da quanti salgono fin quassù.
Il santuario
Il visitatore che giunge fin qui può ammirare, all’esterno della facciata del santuario, proprio sopra il portale d’ingresso (opera di Leonardo Galimberti, frate minore della Verna, su disegno dell’architetto fra David Baldassarri), una bella lunetta in bassorilievo di Vincenzo Rosignoli, rappresentante la Vergine col Bambino Gesù che accarezza i gigli in mano a sant’Antonio, mentre san Bernardino da Siena benedice la scena. Varcata la soglia, ci si trova al centro di una piccola chiesa con pianta a croce greca, finemente decorata e ricca di affreschi: la particolarità, come mi spiega ancora la mia preziosa guida, sta nel fatto che i frati dell’epoca ebbero la felice intuizione di chiamare a lavorare qui solo maestranze e artisti della zona, di fatto facendo emergere e dando lustro a molti talenti romagnoli e toscani. All’interno della chiesa, inoltre, viene conservata una reliquia del Santo giunta da Padova nel 1997.
Uscendo dal santuario, sulla sinistra, si apre il Viale dei mosaici, voluto nel 2001 da fra Ernesto Caroli (fondatore dell’Antoniano di Bologna e curatore del Dizionario Antoniano), che, grazie, appunto, a diciotto mosaici posti lungo il percorso, ripropone tutta la storia di questo luogo, dall’arrivo di frate Antonio a quello della sua reliquia. I mosaici, realizzati dalla Cooperativa mosaicisti di Ravenna, sono stati ricavati dai dipinti di altrettanti valenti artisti locali.
Avvicendamento francescano
Nel 2016, a causa del calo vocazionale che interessa tutte le famiglie religiose, i frati minori hanno dovuto lasciare Montepaolo. Dopo un primo periodo in cui a farsi carico dell'apertura del santuario è stato un gruppo di laiche e laici, da un paio di anni la famiglia francescana è ritornata: non più il Primo ordine, i frati, bensì il Secondo, le monache clarisse. Erano in otto le sorelle quando, nel luglio del 2019, si sono trasferite da Faenza, dove vivevano in un monastero vecchio di ottocento anni.
«Abbiamo compiuto un lungo discernimento prima di giungere qui – confida suor Mariangela, la badessa –, finché non abbiamo compreso che per noi si trattava di una vera e propria chiamata a un avvicendamento con i frati. Ora siamo in cinque, ci occupiamo di tenere aperta la chiesa e di incontrare le persone che lo desiderano. Ma, soprattutto, cerchiamo di garantire una presenza francescana che custodisca lo spirito del luogo. Su questo monte Antonio si ritirava nella grotta a pregare e la grotta, antropologicamente, è simbolo dell’utero materno e quindi di rinascita: in queste terre, infatti, egli elaborò i suoi fallimenti prima di manifestarsi al mondo, interiormente rappacificato. Perciò crediamo che la presenza di una comunità contemplativa, ora assistita dai frati conventuali, sia particolarmente in sintonia con lo spirito di questo piccolo angolo di paradiso, che oggi, dopo la pandemia, è ancora più amato dai pellegrini: è come se il difficile periodo vissuto, infatti, avesse risvegliato nelle persone un anelito a gustare la bellezza di una solitudine feconda. Insomma, sentiamo di essere proprio nel posto in cui ci ha volute il Signore».
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