Lettera dall’eremo
Domani parto. Ho esaurito, troppo presto o almeno troppo velocemente, il tempo a mia disposizione, la settimana che, sgomitando tra riunioni e impegni, mi ero ritagliato in agenda: sette giorni in eremo! Vorrei poter onestamente dire che sono stato in silenzio e ho pregato intensamente, ma non ci giurerei né sull’uno né sull’altro. Al massimo, questo sì, più tranquillo e meno inseguito da faccende da sbrigare o problemi da risolvere. Anche meno inquinamento acustico, grazie alle spesse mura capaci di tenere «fuori campo» telefonini e connessioni varie, e più rumori naturali, mixati dal bosco che abbraccia l’eremo (anche in quest’ora tarda della sera, una civetta con il suo verso piagnoso mi sta tenendo compagnia).
E poi: tempi più dilatati e rallentati, cominciando alle sei del mattino, e spazi più ristretti, ospitato in una celletta di tre metri per due. A spanna. Mi piacerebbe anche addebitare al demonio il piccolo guasto all’auto, che ha rischiato di farmi tornare verso casa su un carro attrezzi già al viaggio d’andata. Avrebbe fatto tanto «tentazioni dei padri del deserto», come quelle assai fantasiose di Antonio abate dipinte da Hieronymus Bosch. Insomma, Satanasso in persona che si scomodava per rovinarmi la settimana in eremo!
Ma poi ho pensato che quella batteria scarica, a terra, era troppo eloquente per non dubitare dello zampino del Padreterno: una batteria senza più energie, che non riusciva da sé a ricaricarsi; l’auto, le nostre oggi completamente «elettrificate», del tutto morta. Una batteria che necessitava di qualcun altro che facesse scoccare di nuovo la scintilla, regalando all’auto di rimettersi in moto. Cosa che, per la cronaca, fece il bravo meccanico accorso in aiuto, permettendomi di raggiungere alfine la mia meta. Eloquente ma, anche e molto di più, allusiva: così, a essere sincero, mi sentivo io. Anche perché, e siamo sempre nella metafora, la partita con quella batteria non sarebbe finita lì.
Che annotare, dunque, ormai al volgere di questa esperienza? Già, e sconsolatamente, che anche un eremo non fa primavera… spirituale. Riscoprire che non esistono automatismi nella nostra vita interiore o, appunto, spirituale che dir si voglia. Certo che la location, il contesto e il copione contano. Così come predisposizioni e buona volontà. Forse anche solo il bisogno. Un suo peso specifico ce l’ha pure, almeno francescanamente, l’accozzaglia fraterna, ma variopinta e caciarona, dei fraticelli che ti ospitano. All’appello non manca neppure il ritmo giornaliero affidato alla preghiera. Ma, date queste variabili, il risultato non è comunque garantito.
Nella matematica dello Spirito Santo i conti vanno per proprio conto e le regole rispondono a logiche a noi misteriose. Perché la scintilla (arriecco la nostra batteria scarica!) non te la puoi dare tu! E neppure arriva da dove te l’aspetti né come te l’aspetteresti. Ma quando finalmente accetti che i giochi non li conduci tu, allora qualcosa succede. È il panorama che incredibilmente appare dietro la curva del sentiero che stavi percorrendo svogliatamente. Oppure una parola della Bibbia che, tra tutte quelle che distrattamente stavi leggendo, si incaglia tra cuore e mente e non ti riesce di schiodarla da lì, emozionandoti profondamente. Ma anche la memoria di volti e storie, di passioni e progetti.
Insomma, è la tua vitaccia di ogni giorno che Dio ti restituisce.Finalmente capisco perché Pietro (†1183), abate di Celle di Troyes, facendo derivare il termine latino cella da incaelare, scriva che chi sta in eremo «abita in cielo». Ok, domani parto e ritorno sulla terra!
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