Tutte le parole del silenzio
È paradossale il silenzio: per parlarne bisogna romperlo. E, invece, per ascoltarlo, bisogna che tutto, attorno a noi e dentro di noi, taccia. Ed è ambiguo il silenzio: a volte è colpevole e grida vendetta al cospetto di Dio, a volte è sacro e «grande».
Lo è anche la solitudine, sua compagna abituale: può essere imposta e perciò subìta con disumana sofferenza, o può diventare intima comunione con Dio. Chi sta da solo in silenzio ne attraversa entrambe le dimensioni, quella negativa e quella positiva, sperimenta sulla propria pelle il peccato e la grazia della solitudine e del silenzio. Anche quello, spesso incomprensibile, di Dio.
San Francesco, che certo non si può accusare di essere stato un asociale, credette di poter tenere assieme gli opposti: silenzio e parola, solitudine e fraternità, contemplazione e azione, Maria e Marta (cf. Lc 10,38-42), in un precario equilibrio costantemente da ricercare, ma certo non da risolvere una volta per tutte scegliendo l’uno piuttosto che l’altro. Perché con entrambi i polmoni l’uomo respira.
Il suo confratello Antonio di Padova la pensò allo stesso modo. Vorrà pur dire qualcosa che gli eremi francescani della Toscana – Montecasale, Cerbaiolo e La Verna – mostrino tutti e tre una supposta cella dove avrebbe soggiornato il nostro Santo!
Del resto, non ci dovrebbe stupire più di tanto che il Santo di cui si conservano a Padova come preziosa reliquia l’apparato vocale e la lingua incorrotta, che predicava instancabilmente alle folle, fosse altresì un eremi cultor, un cultore dell’eremo, come lo definiscono le antiche biografie. Se è vero che la solitudine è la possibilità, la condizione della fraternità.
Così come il silenzio è la possibilità, la condizione della parola. Colui che nella sua breve vita francescana proferì molte parole, e altrettante ne scrisse nei suoi Sermoni, sapeva bene che il silenzio non nega la parola, nega la chiacchiera, come avrebbe poi ribadito il filosofo Heidegger.
Allo stesso modo per cui saper stare da soli è il preambolo della relazione con gli altri, come confida la protagonista femminile del film di Wim Wenders, Il cielo sopra Berlino, all’uomo che ama: «Oggi finalmente sono davvero sola, ora noi due siamo più che due».
La nostra mente è abitualmente un flipper, e il nostro cuore l’affollata sala d’attesa di una stazione. Anche nella Chiesa siamo tentati dall’«eresia dell’azione», come già papa Pio XII, nel 1950, aveva definito l’agire che è pago di se stesso e senza radici nella grazia di Dio.
Ma silenzio e solitudine non rappresentano per Antonio una semplice agognata pausa, una ricarica spirituale in mezzo alle mille incombenze che intasano le nostre giornate. Anche, ma non solo e non principalmente.
È essere presente a se stesso, ai fratelli, alle sorelle e a Dio: possibilità per l’accoglienza e l’ascolto, rimanere senza parole davanti al mistero degli uni e dell’altro, spazio e tempo che si riempirà da sé spontaneamente.
È attendere con fiducia quella parola, proprio quella, che ci «contiene». E far sì che le relazioni non ci servano solo per stordirci. Silenzio e solitudine, che Antonio ricercherà fino all’ultimo, fino alla casetta sul noce di Camposampiero come gli antichi stiliti orientali, per essere certi di chi siamo veramente, e chi siano altrettanto veramente gli altri: quando, prima delle nostre azioni, siamo, semplicemente siamo davanti a Dio. Solus cum solo, sentenziavano gli antichi, da solo con il Solo.
Se poi, a un certo punto, il silenzio e la solitudine devono proprio «essere rotti», allora che lo si faccia unicamente per incontrare i fratelli e le sorelle, e ritrovare lì quel Dio che abita nelle loro storie ed esperienze.
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