Montegiovi: dove il silenzio si fa speranza
Un grande polmone verde adagiato sull’Appennino tosco-emiliano. La foresta del Casentino è ancora oggi una zona incontaminata, poco battuta dal turismo di massa che alla sua bellezza intensa ma discreta preferisce quella più appariscente di altre località. Con i suoi profondi silenzi, questo luogo ha da sempre favorito la spiritualità: tra queste montagne san Francesco ha camminato a lungo e a lungo ha sostato in pertugi che gli permettevano di ristabilire quel dialogo con Dio così necessario a sostenere tutto il resto. No, non è per caso che questo spicchio d’Italia ha visto nascere alcuni dei luoghi di spiritualità più conosciuti: il santuario della Verna, l’abbazia di Vallombrosa, il monastero di Camaldoli. E, mescolati a loro, sparpagliati come briciole di una preghiera umile che intesse la vita quotidiana, ci sono eremi e piccole Pievi, conventi nascosti e monasteri senza tempo. Come quello in cui vive da circa trent’anni la Fraternità della Speranza.
Siamo a una quindicina di chilometri da Arezzo, in località Montegiovi. Qui il silenzio è rotto solo dai suoni della natura in cui il complesso del monastero – una chiesetta e la casa abitata dalla comunità con la piccola foresteria – è immerso. Fondatore e anima della comunità monastica è fratel Stefano Leoni. «La nostra è, per scelta, una comunità di ispirazione monastica di piccole dimensioni – spiega –: in questo momento siamo solo in cinque tra monache e monaci. Età media, 40 anni. Abbiamo gli Statuti e anche una Regola approvata dalla Chiesa, ma tutto è molto semplice, fondato sulla condivisione di vita, il silenzio, la sobrietà e la preghiera. Viviamo del nostro lavoro: c’è chi insegna, chi fa l’impiegato amministrativo, chi scrive icone, chi dirige una cooperativa sociale. Siamo convinti, infatti, che per poter parlare al cuore delle persone che incontriamo dobbiamo condividerne appieno la vita». Qui l’unità è un’attitudine che favorisce anche l’adozione di segni ecumenici, come le icone che accolgono chi entra nella Pieve e rimandano alla spiritualità orientale, o la Parola sempre aperta che collega idealmente alla Chiesa della Riforma.
Tutto questo ha preso origine circa trent’anni fa, da un giovane che sentiva forte in sé la chiamata a vivere in solitudine e silenzio, in una forma di vita eremitica. «Quel giovane ero io – confida fratel Stefano – e ho vissuto in questo modo per una quindicina d’anni: non cercavo fratelli e sorelle, non volevo fondare alcuna comunità. Vivevo tra queste mura, lasciando però sempre aperta la porta all’accoglienza di chiunque volesse trascorrere un periodo di silenzio o trovare un po’ di pace in un momento difficile. In casa con me a periodi sono vissuti ragazzi in affido, migranti… Chiunque arrivava era il benvenuto. Vivevamo di ciò che c’era, a volte solo di un piatto di minestra». Ma questa presenza, semplice perché semplificata, in poco tempo è diventata un segno concreto di una presenza Altra.
E così le persone pian piano hanno cominciato ad avvicinarsi per poter restare. «Il primo fratello veniva a trovarmi perché abitava qui vicino – ricorda fratel Stefano –. Un giorno ha scelto di non andare più via. Sia io, in origine, che i fratelli e le sorelle che sono arrivati dopo abbiamo sempre cercato, infatti, di non fare della vita contemplativa un nido in cui chiuderci, ma, al contrario, un’esperienza di Chiesa che opera, lotta e spera ovunque ci siano persone che operano, lottano e sperano. Anche per questo sin da subito abbiamo scelto di inserirci nella Chiesa locale, affinché la nostra esperienza non fosse il frutto di una spiritualità disincarnata».
La giornata della Fraternità è scandita dalla preghiera. «Preghiamo insieme al mattino, pomeriggio e sera, in orari stabiliti in modo tale da favorire la partecipazione di tutti i fratelli e le sorelle e così pure delle persone che vogliono unirsi a noi. Così, ad esempio, l’ora media è alle 15, quando tutti sono rientrati dal lavoro, mentre la preghiera serale è alle 21, dopo cena, per permettere anche a chi viene da fuori di arrivare in tempo». Le richieste di entrare in comunità sono continue, racconta ancora fratel Stefano «ma tutto avviene con molta calma, senza tappe predefinite. Vogliamo che sia il Signore a scegliere i tempi giusti per ciascuno».
La presenza di san Francesco qui si respira nell’aria, dicevamo all’inizio. Anzi, si legge fin dalla prima frase della Regola della Fraternità: la Regola è vivere il Vangelo... «Sì – ammette fratel Stefano – il passaggio di Francesco in queste terre ha lasciato un segno indelebile anche a secoli di distanza». E, proprio come avvenne per il francescanesimo delle origini, ben presto anche ai consacrati della Fraternità si sono affiancati laici non consacrati e famiglie. «Tutto è cominciato grazie a sant’Antonio – dice fratel Stefano sorridendo –. Una ventina d’anni fa abbiamo messo in piedi con un gruppo di giovani un musical proprio sulla vita del Santo, Finalmente ti vedo, che abbiamo portato anche a Padova, dando vita a una vera e propria compagnia teatrale, la Compagnia della Speranza, che avrebbe dovuto sciogliersi terminata l’esperienza. In realtà, ci siamo resi conto che quanto realizzato ci aveva unito in profondità e così la Compagnia, che di teatrale non ha più niente, ora ci affianca, nello stile dei terziari francescani».
Certo, vivere il silenzio in un posto baciato da Dio come questo può apparire relativamente facile. Ma chi è costretto a fare i conti con un rumore assordante che accompagna la quotidianità, come può immergersi in questa dimensione? «Tecniche per raggiungere il silenzio ce ne sono molte – risponde il monaco –. Per questo, piuttosto che concentrarsi su di esse, è meglio vivere esperienze che suscitino la sete di silenzio. È quanto noi cerchiamo di fare con chi viene a trovarci. Anche in questo caso si tratta di piccole cose: dire qualche parola in meno, stare insieme in silenzio di fronte all’eucaristia, offrire a qualcuno che soffre un abbraccio invece di tante frasi… Pure la preghiera qui da noi non ha una conclusione: i monaci e le monache si allontanano mentre ancora la musica che ci ha accompagnato continua, prolungando in questo modo un clima di contemplazione all’interno del quale si fa esperienza di un desiderio».
«Così accade che i nostri ospiti, giorno dopo giorno, arrivino sempre prima alla preghiera e vadano via sempre più tardi. Le tecniche per fare silenzio si apprendono e si abbandonano facilmente; la sete di silenzio, una volta che l’hai avvertita, non la scordi più. Succede anche con i giovani. Con loro è molto facile fare “preghiere di festa”: suonare la chitarra, cantare… Bello, certo, ma il rischio è che quando tutto ciò è finito un ragazzo debba cercare un’altra festa e poi un’altra e un’altra ancora. La preghiera nel silenzio, invece, aiuta i ragazzi a connettersi con se stessi e a placare la loro anima inquieta senza spegnere l’inquietudine della ricerca. Se poi si accompagna all’ascolto vero e a poche parole di apprezzamento per la loro vita, lascia un segno profondo. Non ho mai visto giovani andare via da qui tristi o annoiati. L’esperienza del silenzio è un’esperienza di fede profonda, che dona una gioia grande di cui si avvertirà per sempre una grande nostalgia».
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