Mauro Gambetti: un cardinale in tonaca
Se non fosse per quella croce sul petto, non si direbbe che è un cardinale. Non lo dice la veste, che è la stessa di sempre: la tonaca francescana di colore nero dei frati minori conventuali. E non il modo di fare, che non è cambiato rispetto a prima: semplice, allegro e diretto. Forse per questo, quando lo incontro, mi viene da chiedergli: «Posso chiamarla padre Gambetti invece che eminenza?». E la risposta, ovviamente affermativa viste le premesse, è una risata, la prima di una lunga serie che costellerà l’intervista con fra Mauro Gambetti, anzi, con sua eminenza cardinale Mauro Gambetti, perché tale è diventato il 28 novembre scorso. E il 21 febbraio di quest’anno il Pontefice lo ha anche nominato Vicario generale per la Città del Vaticano e Presidente della Fabbrica di San Pietro. Da custode del Sacro Convento in Assisi a tutto questo in pochi mesi: un triplo salto mortale carpiato, per dirla in termini ginnici.
Msa. Padre Gambetti, ma davvero non sapeva nulla quel 25 ottobre, quando papa Francesco ha annunciato che lei sarebbe stato creato cardinale?
Gambetti. Confermo: non sapevo proprio nulla. Quando il Papa ha fatto il mio nome, al termine dell’Angelus, io ero impegnato in un colloquio con una persona e, all’improvviso, ho cominciato a ricevere moltissime telefonate. Mi sono perfino preoccupato: «Qui deve essere successo qualcosa di grave» ho pensato. E così, congedata la persona, ho chiamato un amico e lui mi ha dato la notizia. Da principio ho creduto si trattasse di uno scherzo, anche perché, andato a verificare, sul sito del Vaticano non ho trovato nulla.
E poi, che cos’ha pensato?
Ho realizzato in un attimo che la mia esistenza sarebbe cambiata radicalmente, che avrei dovuto lasciare la vita comunitaria, quella che mi ero scelto, nella quale mi trovavo bene e che mi aveva dato tantissimo e questo non è che proprio mi entusiasmasse. Poi, però, mi è venuto da sorridere, pensando al modo in cui era stato dato l’annuncio e ho pensato alla simpatia del Papa. E in quel momento ho avvertito che stavo già aprendo il mio cuore a quello che sarebbe stato. Nei giorni seguenti, accorgendomi che attorno a me c’erano tante persone felici per questo «fuori programma», la loro felicità ha iniziato a contagiarmi e una gioia soffusa si è fatta strada in me, aiutandomi, credo, a vivere bene sia il periodo dell’attesa che la prospettiva del cambio di vita.
Quali obiettivi si propone da cardinale?
A parte il mandato e il compito specifico che papa Francesco mi ha affidato, vorrei essere un servo, fedele al Papa e alla Chiesa, che al contempo conserva i tratti di quella spiritualità che sente appartenergli profondamente. Quindi, mi piacerebbe servire la Chiesa e il Papa con lo spirito di Francesco, di umiltà e di obbedienza, ma anche con la creatività che appartiene al nostro carisma e al Dna stesso del nostro fondatore. E poi vorrei riuscire a mantenere una libertà di coscienza che mi consenta di essere leale e di esprimere quello che ritengo sia giusto, pur nei modi opportuni. Conservare la letizia, pur tra le tante cose da fare, mantenere l’umiltà e crescere nella creatività: potrebbe essere questo il mio «mandato», un tratto che spero possa sempre più caratterizzare tutta la Chiesa.
Il suo motto episcopale, Omnibus subiecti in caritate, riprende le espressioni di Pietro (1Pt 2,13) e di Paolo (Ef 5,21) ed è un chiaro rimando alla spiritualità francescana: «Non facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio» (Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVI,6).
Sono convinto che questo dovrebbe essere per chiunque il modo di vivere la fede, non solo per chi ha una chiamata particolare nel ministero all’interno della Chiesa. Perché, prima ancora di san Francesco, è stato Gesù a tracciare questa via per i suoi discepoli: siamo chiamati a essere sottomessi gli uni agli altri. Perché sottomissione, al di là di quell’aura di moralismo di cui a volte è stata ammantata questa parola, sta a significare la necessità di restare in ascolto degli altri, mantenendoci disponibili al cambiamento, facendoci da loro evangelizzare. Gli altri spesso ci indicano la direzione di Dio per la nostra vita: la sottomissione, infatti, è sempre in ordine alla volontà di Dio, a ciò che lui vuole realizzare con noi. Negli altri, Dio ci parla.
Papa Francesco, sin dal nome, sta dimostrando di puntare molto sul francescanesimo, e anche la sua nomina va in questa direzione.
La questione non credo stia nel «francescanizzare» la Chiesa, ma nell’attingere ad alcuni tratti della spiritualità francescana che oggi possono rispondere molto bene alle sfide che il mondo ci pone e che consentono per questo di veicolare in modo semplice e immediato il messaggio di Gesù. Basti pensare ad alcuni temi classici del francescanesimo, come quelli della promozione della pace e della salvaguardia del Creato. Oppure quello della fraternità – pensiamo solo all’ultima enciclica, Fratelli tutti –, che richiama immediatamente anche il tema di una nuova visione dell’economia. Ma c’è anche uno stile di essere Chiesa, che è presente nel mondo francescano e che appartiene al Pontefice: la minorità, un aspetto che si declina con quella sottomissione di cui parlavamo poc’anzi, perché ci invita non solo a rispettare e ad ascoltare l’altro, ma anche ad apprezzarlo in quanto portatore di qualità che a noi mancano. È un atteggiamento difficile nel mondo di oggi, ma necessario per divenire seme e testimone.
Quali sono, secondo lei, i punti di forza ma anche di debolezza del francescanesimo di oggi?
Tra i punti di forza ci sono senza dubbio la povertà e la fraternità, che vanno insieme, perché si è fratelli solo quando si è poveri. Mi riferisco alla povertà di spirito, quella interiore, che ci porta a riconoscere il bisogno degli altri. E poi ci sono alcuni elementi del nostro stile che penso possano fare davvero bene al mondo: la semplicità, cioè quella trasparenza che favorisce l’incontro, l’immediatezza dello scambio; la letizia, vale a dire la capacità di non gravare sugli altri con i nostri problemi e che comporta l’esigenza di una pacificazione del cuore. Inoltre, credo che uno dei tratti salienti dei francescani sia la consapevolezza di essere stati oggetti di una misericordia di Dio immensa, una misericordia che ci ha fatto fiorire e che dobbiamo essere in grado di conservare in noi e di tradurre in gesti concreti per gli altri. Si sente spesso dire che ci si va a confessare dai frati perché hanno la «manica larga»: è vero, e dipende proprio da quanto appena detto. Anche gli aspetti da migliorare sono tanti: per esempio, una certa approssimazione che a volte ci caratterizza, oppure quel desiderio di stare tra noi, in comunità, che talvolta facilita la creazione di piccoli salotti, pur non mancandoci lo zelo per il Vangelo.
Lei proviene dalla Provincia di sant’Antonio dei frati conventuali. Chi è per lei sant’Antonio?
È un grande Santo e mi accompagna fin dalla nascita: il mio secondo nome, infatti, è Antonio. Prima di entrare in convento, sono stato per un lungo periodo lontano dalla Chiesa. Facevo una vita normale, mi ero laureato in ingegneria, avevo una fidanzata e mi accingevo a prendere le redini dell’azienda di famiglia, ma non vivevo più la dimensione di fede. Mia mamma e mia nonna, però, erano preoccupate e pregavano Antonio per me. Ma quando ho detto a casa che volevo diventare frate, la risposta attonita di mia mamma è stata: «Troppa grazia sant’Antonio! Io ti avevo chiesto sì che Mauro tornasse alla Chiesa, ma non che si facesse frate…». Insomma, non è che all’inizio in famiglia facessero proprio i salti di gioia per la mia scelta: solo col tempo si è fatta strada la contentezza. Ma, al di là della vicenda personale, credo che in Antonio ci sia qualcosa di empatico, che lo fa sentire vicino a chiunque ed è un aspetto importante questo, soprattutto in tempi di solitudine e di individualismo come gli attuali. E poi non dimentichiamo che Antonio è stato una figura importante nella storia del francescanesimo: grande oratore, aveva il dono di una predicazione sempre molto radicata nella vita concreta. Da lui noi francescani dovremmo imparare a incidere di più a livello sociale, senza paura di entrare nelle dinamiche economiche e politiche. Lui ha vissuto una spiritualità molto incarnata e con l’orizzonte dell’universalità. Ci chiede di fare altrettanto.
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