Mente e cuore in campo, per società più inclusive
La pace non è solo una questione umana. Vale a dire che nessuno di noi può trovare in se stesso, da solo, la pace, né tanto meno diffonderla intorno a sé. La pace, almeno secondo una visione cristiana della vita, è innanzitutto un dono di Dio, e la Bibbia, come ricorda il biblista Primo Gironi, ce la descrive «come pienezza di tutte le benedizioni divine: la vita e la famiglia, la terra e i suoi prodotti, il lavoro e il benessere, la longevità e l’abbondanza» e come «messaggio centrale della speranza messianica annunciata dai profeti, che la vedono realizzarsi nella ritrovata armonia delle origini tra l’uomo e il creato: “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello…” (Is 11,6-9)». Per questo la pace è essenzialmente un processo, un «allenamento» costante dell’essere umano che, “nell’ascolto” di Dio, compie giorno dopo giorno piccole o grandi scelte di pace.
Non stupisce quindi che il «Messaggero di sant’Antonio», che da sempre ha come obiettivo quello di uno sguardo evangelico sul mondo concreto, reale, abbia organizzato a Padova, lo scorso 15 giugno, nell’ambito delle celebrazioni del Giugno antoniano, un momento di riflessione, approfondimento e formazione su alcuni dei temi che possono favorire questo processo di pace, come i linguaggi, la giustizia sociale e l’inclusione, dal titolo: «Linguaggi di pace per una società riconciliata». All'evento hanno preso parte come relatori: Laura Nota, professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Filosofia, sociologia, pedagogia e psicologia applicata dell’Università di Padova, dove insegna Progettazione professionale e career counseling e Counseling psicologico per l’inclusione sociale delle disabilità e del disagio sociale; Roberto Reale, giornalista e scrittore che si occupa di comunicazione e dell’evoluzione dei media, degli effetti concreti che nuovi strumenti e tecnologie hanno sulla società con particolare attenzione ai temi legati a cittadinanza e democrazia; Bernardino Mason, di Pax Christi, formatore sui temi della pace e della nonviolenza; coordinati da fra Massimiliano Patassini, direttore editoriale del «Messaggero di sant’Antonio».
In tale contesto, di inclusione si è occupata Laura Nota che, tra l’altro, nel periodo 2015-2021 è stata anche delegata del rettore all’Inclusione e alla Disabilità, avviando il progetto «Università inclusiva» ed è coordinatrice del gruppo di lavoro «Inclusione e Giustizia sociale» della Rete delle università per lo sviluppo sostenibile.
L’intervento della docente ha preso avvio da un brevissimo excursus storico volto a tratteggiare la situazione odierna, caratterizzata da forte conflittualità sociale e guerre, e al come si sia giunti a essa. Stiamo vivendo nell’Antropocene, ha spiegato Nota, una vera e propria nuova epoca geologica nella quale l’essere umano, in poco tempo e nonostante sia in minoranza rispetto agli altri esseri viventi, è riuscito con le sue attività (modifiche territoriali, strutturali e climatiche) a incidere sui processi geologici, forgiando quindi il mondo sulla base delle proprie esigenze. Un cambiamento che ha avuto inizio quando all’orizzonte si è profilato il cosiddetto homo oeconomicus, ha sintetizzato ancora la docente, vale a dire quando il fare profitto è divenuto la principale preoccupazione dell’umanità e il denaro da mero strumento si è trasformato in fine ultimo e quindi poco conta come lo si accumuli: se venga dal lavoro dell’uomo o dalla vendita di bombe. In contemporanea, anche il concetto di individuo, inizialmente connotato positivamente, ha cominciato a deviare verso l’individualismo, per cui conta solo il proprio sé, staccato dal rapporto con le altre persone. Pian piano siamo divenute monadi, e come tali fatichiamo ad avere una visione complessa della realtà, per la quale il confronto con gli altri è essenziale. Anche l’idea di natura ha subito in questo quadro un profondo cambiamento, ha proseguito ancora Nota, divenendo solo una risorsa da sfruttare o, peggio, una pattumiera. E così le società oggi hanno al centro solo il mercato, come struttura sociale, dove vigono unicamente dicotomie (vantaggi/svantaggi, profitti/perdite) e dove la libertà è solo quella di poter scambiare prodotti, calcolare vantaggi e competere con gli altri. L’uguaglianza ha perso così ogni appeal sociale ed è stata sostituita da una visione gerarchica con struttura piramidale che non aiuta di certo la convivenza civile sia nella società che con il creato. «Per costruire tutto ciò – ha spiegato la docente – è stato necessario mettere in campo grandi dosi di cinismo, una forma soft di aggressività, che ha contribuito notevolmente ad abbassare la qualità della nostra vita, perché tutto pare perdere valore. E questo rappresenta l’humus perfetto per ogni guerra».
Ma in questa società di monadi che hanno messo al centro il denaro e il potere, nella quale non c’è spazio per chi «non ce la fa», può l’inclusione aiutare davvero la costruzione della pace? «Certamente – è stata la risposta di Nota –, purché ci si intenda bene sul termine inclusione. Perché ce ne sono visioni differenti, che potremmo sintetizzare in tre tipi. Il primo è quello molto legato all’impianto sociale “dell’avere”: in tale concezione l’inclusione è quella che si preoccupa semplicemente di inserire le persone nel mercato del lavoro, come se fosse l’unico aspetto significativo del nostro mondo. In questa visione, chiaramente, rientra solo chi è efficiente: l’individuo è autodeterminato, non considera gli altri, si sente unicamente libero di competere, e quindi “marca stretto” chi non ce la fa, le cui difficoltà vengono accentuate per mantenere la struttura piramidale, anche attraverso l’uso di parole generalizzanti come per esempio disabile e l’adozione di un linguaggio economicistico».
«Il secondo tipo è invece quello che legge l’inclusione come riconoscimento e integrazione dell’eterogeneità umana – ha proseguito Nota –. Un’idea che si è sviluppata a partire dal secolo scorso e che pone attenzione alla giustizia sociale. Ha però una pecca: l’uguaglianza in questo caso riguarda solo l’umanità, perché il resto delle creature rimane fuori dal campo di interesse e di riflessione. In questa visione, comunque, il linguaggio comincia a cambiare e a divenire pian piano realmente più inclusivo. Ma è con il terzo tipo di inclusione, che a quella precedente vuole aggiungere altri aspetti, che il cambiamento può arrivare davvero – ha insistito la docente –, perché si comincia a eliminare l’idea stessa dei perimetri, a guardare ad altri contesti, tenendo conto anche della diversità delle forme di vita e a chiedersi se si possa fare sperimentazione sociale includendo nuove forme e nuove parole. Giungere a questo tipo di inclusione, naturalmente, richiede tempo, pazienza e riflessione. Richiede di mettere in campo strumenti culturali che permettano una visione diversa. Richiede un lavorare insieme, perché solo nel confronto c’è vera evoluzione del pensiero. Richiede, in definitiva di mettere in campo mente e cuore, per aprirsi a nuove forme di comunicazione».
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