Meteo e informazione, un clima di paura
È opinione condivisa dalla comunità scientifica che il riscaldamento globale sia frutto non di qualche oscuro cospiratore o delle scie chimiche, ma delle emissioni di gas serra e dello sfruttamento di fonti fossili. La politica, con la Conferenza COP21 tenutasi a Parigi nel 2015, ha tentato di impegnare i Paesi partecipanti a contrastare questo fenomeno intensificatosi dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Per la verità, con modesti risultati. Ma perché?
«La più grande trasformazione nel rapporto ideologico tra la classe politica e i cittadini consiste nella “vendita” di un beneficio futuro – osserva il professor Giulio Sapelli, già ordinario di Storia economica all’Università degli Studi di Milano, e consigliere anziano della Fondazione Eni Enrico Mattei –. Tutti siamo consapevoli che per intervenire sui cambiamenti climatici ci vogliono decenni. Eppure si “vende” ai cittadini-elettori un beneficio futuro. Questo perché, secondo me, il mondo oggi è pieno di paure».
La politica è in difficoltà anche per un’altra ragione: «ha perso la sua funzione di elemento di comunicazione tra potere e società – aggiunge il professor Mario Morcellini, commissario dell’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. La corretta comunicazione sta a metà tra la politica e la gente. Quella attuale, invece, sta a metà tra il “popolino” che grida – mi viene in mente Manzoni e i tumulti per il pane – e una politica derisa e, in qualche misura, destabilizzata. La politica e i politici sono ostaggio di internet, dei like, dei social media. Invece, proprio perché c’è una crisi strutturale, avremmo più diritto a una politica che coincida con un progetto etico per il Paese».
Sul piano della realpolitik internazionale, la sfida principale non si gioca tanto tra l’umanità, da una parte, e le catastrofi ambientali dall’altra, ma tra le allarmate tecnocrazie dei Paesi maggiormente responsabili e consapevoli dell’inquinamento e una lobby magmatica internazionale e trasversale, composta da apparati industriali, multinazionali, interessi economici e geopolitici, finanzieri e speculatori senza scrupoli oltre al cinico individualismo di chi pensa a come arricchirsi, qui e adesso, ovvero a come blandire il proprio elettorato, prima ancora di preoccuparsi realmente del presente (e del futuro) dei propri discendenti.
L’acquazzone assassino
Che ruolo hanno i mass media nella percezione dei cambiamenti climatici e dei disastri ambientali? L’indagine europea Eurobarometer – Climate Change (fonte Ispra) non ha dubbi: sui questi temi l’informazione e la comunicazione restano imprescindibili strumenti di conoscenza e di partecipazione per chi amministra la cosa pubblica, per gli addetti ai lavori e per i cittadini. Talvolta, però, sembra dominare un’informazione «schizofrenica».
Settembre 2017: l’uragano Irma, inconsueto per la sua potenza, semina morte e distruzione tra i Caraibi e gli Stati Uniti. Gennaio 2018: la tempesta Friederike sferza il Nord Europa con venti anomali a 200 chilometri orari. Pedoni sollevati in aria. Aerei a terra. Popolazioni barricate in casa. Black out elettrici ovunque. Sembra la trama di un film del genere catastrofico. In realtà, sono i segni evidenti di un clima «malato» dovuto in gran parte all’inquinamento prodotto dall’uomo.
I telegiornali e l’informazione aprono con le immagini delle devastazioni. Indovinate quali sono le successive entusiastiche notizie in scaletta? Il Pil della Cina che vola. L’industria manifatturiera italiana che torna a tirare. L’aumento di ordinativi e consumi. Poi l’inevitabile surplus produttivo della Germania. Le Borse applaudono.
Senza tutto questo, probabilmente, la nostra civiltà e il nostro tenore di vita non esisterebbero. Eppure, di fronte all’epica sfida tra industrializzazione e sopravvivenza della specie, è come se l’umanità vivesse, in modo appunto «schizofrenico», con i piedi sulla Terra, ma con la testa altrove.
«Il cambiamento del clima è frutto del sistema capitalistico – sottolinea Sapelli – non di “uomini cattivi”. Perché si brucia il carbone? Perché costa meno e garantisce profitti maggiori». Invero non si tratta solo di «schizofrenia».
«C’è anche un secondo motivo – afferma Morcellini –. I mass media si limitano a due tipi di comportamento culturale. Il primo corrisponde a una continua esasperazione dell’emergenza, come nella cronaca nera e nel terrorismo. Nel caso di questioni ambientali, i mass media “sparano” titoli allarmistici senza operare un lavoro di monitoraggio sistematico, cioè affidano la questione solo alla notizia di una catastrofe invece di assumere un compito di controllo delle politiche pubbliche. Il secondo comportamento è quasi imperdonabile: la tendenza alla spettacolarizzazione di questi eventi estremi, ma anche a trasformarli in avvenimenti di cronaca invece di educare i cittadini a una diversa consapevolezza delle responsabilità che hanno di fronte».
«Cause e prevenzione. Questo dovrebbe essere il focus principale dopo un evento catastrofico – sostiene Andrea Garbinato, coordinatore team e comunicazione del visitatissimo portale iLMeteo.it – al fine di coordinare le forze affinché esso non si ripeta più, o quanto meno allo scopo di eliminare le cause dipendenti dall’uomo». Esasperare solo l’idea dell’emergenza significa chiamare in causa e sollecitare la paura, l’istinto, e quindi rendere il pubblico meno capace di elaborare culturalmente questi temi.
Anche il linguaggio merita una disamina. Le previsioni meteorologiche ci hanno abituato, negli ultimi anni, a perturbazioni dai nomi coloriti ma temerari. Così d’estate ci ritroviamo l’immancabile ondata di calore Lucifero piuttosto che Caronte o Flegetonte. E d’inverno la bufera siberiana Igor. Gli acquazzoni si sono trasformati in bombe d’acqua. Le trombe d’aria – peraltro da sempre presenti alle nostre latitudini – sono diventate tornadi e cicloni. Evocando così scenari apocalittici nell’immaginario collettivo. E i mass media si sono accodati.
«Taluni parlano di shock communication – ricorda Morcellini –. I media cercano il titolo più corto che riesca a definire un campo, il che non significa capirlo. I mass media devono capire che in un mondo in cui i punti di riferimento diminuiscono, loro devono assumere una responsabilità supplente: non di educatori ma nemmeno di semplici spettatori, accanto a noi, dell’”orrore”. Un “orrore” che spesso loro stessi hanno contribuito a creare».
Ma Garbinato non ci sta: «Gli eventi meteorologici hanno compiuto un salto di livello, quanto meno in merito alla “frequenza” di quelli estremi. I nomi dati agli anticicloni e alle depressioni non nascondono alcun tentativo di fidelizzare l’utenza, in quanto l’utenza meteo si fidelizza con delle buone previsioni, non certamente con dei nomi curiosi».
Perché abbiamo percezioni diverse?
Kevin J. Coyle e la psichiatra Lise Van Susteren hanno curato una ricerca sugli effetti psicologici del global warming e dei disastri ambientali negli Stati Uniti per il National Wildlife Federation Climate Education Program con il supporto della Robert Wood Johnson Foundation. E hanno rilevato che, nei prossimi anni, i cambiamenti climatici produrranno «traumi collettivi, depressione, violenza, alienazione, suicidi, abuso di sostanze stupefacenti e malattie mentali».
In questa gigantesca disfida, un ruolo decisivo sembra averlo un fattore apparentemente secondario ma, alla lunga, determinante nel forgiare la coscienza collettiva e l’opinione pubblica, tanto da orientare e sostenere nel tempo le scelte della politica. Questo fattore è la «percezione» che i cittadini hanno di questi fenomeni e delle loro ricadute sulla loro vita: stagioni irregolari e imprevedibili, eventi meteorologici sempre più frequenti e violenti.
Negli Stati Uniti si parla da tempo di «sindromi da stress pre e post-traumatico» – soprattutto in chi ha visto distrutta la propria casa da un uragano o da un tornado – generate anche da un pericoloso «catastrofismo» tipico dei mass media (internet, giornali, radio, televisioni, cinema) quando trattano o enfatizzano i fenomeni climatici correlati, oppure no, al global warming.
L’allarmismo – anche quando è giustificato – e la paura pagano, eccome, in termini di audience, incollando milioni di spettatori allo schermo della Tv o del computer. Così, tra un collegamento e l’altro con l’inviato sul fronte dell’uragano o dell’inondazione, passano gli spot o i banner pubblicitari. Per chi produce tranquillanti e vende polizze assicurative, i cataclismi sono diventati addirittura un business redditizio.
D’altro canto, un ulteriore rischio è il cosiddetto «effetto assuefazione», capace di abbassare la guardia e l’attenzione dei cittadini. Peggio ancora è una percezione talmente terrifica del global warming e dei cataclismi da indurre parti della popolazione all’inconscia rimozione della consapevolezza di questi eventi come se non la riguardassero affatto o come se fossero fatalmente irrisolvibili.
Uno studio sulla percezione dei rischi collegati ai cambiamenti climatici, curato dal professor Dan Kahan dell’Università di Yale per la National Science Foundation, ha acclarato che le divisioni dell’opinione pubblica sui cambiamenti climatici, cioè tra consapevoli e negazionisti, «non derivano dall’incomprensione della scienza da parte dei cittadini» come vorrebbero alcuni luoghi comuni, «ma da un conflitto tra l’interesse, da una parte, che i singoli individui hanno nel formarsi convinzioni personali in linea con quelle di altri individui con cui hanno stretti legami, e l’interesse collettivo, dall’altra, che essi condividono nel fare uso della scienza per promuovere il benessere comune».
Gli studi in ambito psicologico hanno individuato due forme di elaborazione delle informazioni: «una che implica un giudizio istintivo (o “di pancia”) che si manifesta con decisioni intuitive; e una seconda forma che invece richiede una riflessione consapevole e un calcolo. La maggioranza delle persone, in base a questa ricerca, utilizza la prima forma di ragionamento senza ricorrere a un’elaborazione più complessa. Se la forma intuitiva funziona bene per gran parte delle nostre incombenze quotidiane, la dipendenza prevalente dei cittadini dall’intuito piuttosto che dal ragionamento, li porta a sottovalutare i rischi del cambiamento climatico e degli eventi meteorologici (occasionali) che così appaiono remoti e astratti rispetto a una serie di rischi (quotidiani) emotivamente più forti come, per esempio, quello del terrorismo che, anzi, si ritiene che la gente sopravvaluti».
«Se noi studiamo il rapporto tra cibo e uomini – conclude Morcellini – ci accorgiamo che è mutato. Questo è successo anche per merito di una comunicazione che è riuscita a far apparire la dimensione salutare ed educativa del cibo. Se questo è avvenuto con il cibo, non si capisce perché non possa ripetersi anche sul versante dell’educazione ambientale».