Nicoletta Ferrara: quei figli speciali

Un libro appena uscito, "A casa nostra", scritto da Nicoletta Ferrara, ci apre la porta di un’esperienza nuova e interessante: l'accoglienza nella propria casa di sei giovani africani.
12 Maggio 2019 | di

Spesso coloro che sostengono con forza la necessità di accogliere gli immigrati nel nostro Paese, senza paura, sono accusati di non conoscerli, di non avere un rapporto diretto con loro, mentre chi li conosce, chi deve spartire la sua vita di condominio con degli immigrati, chi li incontra per strada o in autobus tutti i giorni, chi ha i figli che vanno a scuola con i loro figli non sarebbe disposto così benevolmente. Ma un libro appena uscito, A casa nostra, scritto da Nicoletta Ferrara,  ci apre la porta di un’esperienza nuova e interessante.

La famiglia Calò – quattro figli grandi – ha deciso infatti di ospitare nella sua casa in un paese del Veneto sei ragazzi profughi, tutti provenienti dall’Africa. L’esperienza si rivela subito molto più coinvolgente del previsto, e anche molto più lunga: dopo due anni i ragazzi, che si sono inseriti nella società locale e hanno trovato lavoro, sono ancora da loro, e fanno ormai parte della famiglia. Nicoletta nel suo libro racconta come è avvenuta questa trasformazione, come, giorno per giorno, sei giovanotti neri come l’ebano, che quasi non parlavano italiano, siano diventati figli affettuosi e obbedienti, e come le loro pene, le loro difficoltà, siano condivise dalla famiglia Calò – genitori e figli, anche se ovviamente in modo diverso – aprendo la vita della famiglia al mondo.

Nicoletta, se pure con un po’ di rammarico, capisce come la cucina costituisca un punto di riferimento importante per delle persone spae­sate, e quindi cede loro la cucina per preparare la cena comune, cercando di abituarsi a sapori e odori nuovi, che impregnano anche i loro vestiti di «bianchi». Accetta – quante padrone di casa l’avrebbero fatto? – che la sua casa, amata e curata, prenda un po’ l’aspetto di un accampamento: non solo la presenza ingombrante dei ragazzi, ma anche la costante moltiplicazione degli stendini da bucato. Perché, da donna concreta, ci racconta che sei giovanotti in casa vuol anche dire bucati continui, e tanta roba da asciugare. Ce la immaginiamo bene, questa casa, sovraffollata e piena di stendini, che odora di fritto e di cibi africani, ma piena della gioia e della speranza che può dare solo una gioventù che, dopo avere sperimentato con durezza la cattiveria degli esseri umani, trova finalmente una famiglia ad accoglierli. Sorrisi e attenzioni verso la nuova mamma arrivano da parte di tutti i ragazzi, prova di un affetto crescente che non è solo riconoscenza, ma si basa sulla conoscenza personale e l’apprezzamento delle qualità dei nuovi genitori. La coppia sperimenta quindi un modo diverso di essere genitori: i ragazzi africani li rispettano e ascoltano le loro parole con una riverenza che non avevano mai dimostrato i loro figli.

Colpisce soprattutto la fede in Dio di questi giovani musulmani, la loro capacità di preghiera che si esercita soprattutto durante il ramadan, una pace che irradiano intorno a loro come forma di riconoscenza nei confronti dei benefattori, àncora a cui appoggiarsi nelle avversità. Avversità che non sono finite: non siamo in un film a lieto fine, purtroppo. La burocrazia, le leggi contrastano in tutti i modi la possibilità per quattro dei sei ragazzi di venire accolti legalmente, nonostante il comportamento esemplare e la necessità di manodopera del nostro Paese. Il pregiudizio è più forte di ogni realtà, di ogni esempio di integrazione riuscita. Questo rifiuto continua, nonostante la testimonianza della famiglia di Nicoletta insegni che basterebbe che molti di noi facessero il loro dovere di cristiani verso persone sofferenti e perseguitate per trovare la soluzione a tanti problemi, per scaldare il nostro cuore inaridito

 

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Data di aggiornamento: 14 Maggio 2019
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