Olmi, amico del «Messaggero»
Ermanno Olmi ci ha lasciato il 7 maggio scorso. I mass media, pur occupatissimi nel seguire le intricate vicende post-elettorali della politica italiana, gli hanno dedicato il giusto spazio, celebrandolo come uno dei più geniali e sensibili registi italiani. Hanno evidenziato come decisive le sue origini contadine e cattoliche. Del resto, proprio dai valori che fondavano quel mondo Olmi ha ricavato la personale filosofia di vita e la sua poetica cinematografica. L’ambiente d’origine del regista era popolato da gente umile e frugale, che regolava le giornate sui ritmi della natura e nel rispetto vitale di essa. Gente abituata ad affrontare le avversità come a dividere il pane, cioè la vita di cui il pane è simbolo, con chi non ce la faceva. Gente che si fidava di Dio, anche quando le giornate finivano contro il muro nero dello sconforto.
Da questo mondo, o comunque da quello che esso esprime, Ermanno Olmi aveva tratto materia e stimoli per gran parte dei suoi film, sempre svolti con garbo e in contesti scenici di grande suggestione. L’esempio più limpido è L’albero degli zoccoli, girato nel 1978, sulla vita dei contadini padani, recitato in dialetto bergamasco da attori non professionisti e premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Intorno alla stessa poetica si sviluppano un po’ tutti i film del regista lombardo. Da Il posto del 1961, che ha per protagonista femminile Loredana Detto, sua futura moglie, a Lunga vita alla signora, vincitore di un Leone d’Argento alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1987. Senza scordare La leggenda del santo bevitore, tratto dall’omonimo romanzo di Joseph Roth, premiato col Leone d’Oro al Festival veneziano l’anno successivo.
Tra i molti capolavori firmati da Ermanno Olmi, ci soffermiamo ora su un lungometraggio quasi sconosciuto. Non prima d’esserci concessi una rapida zoomata su una scena del suo ultimo film, Torneranno i prati, girato nel 2014, anno centenario dell’inizio della Prima guerra mondiale. Sulla scena, bellissima, si vede un soldato in procinto di uscire dalla trincea. Sicuro di essere abbattuto dai cecchini, prima di lanciarsi, l’uomo bacia un pezzo di pane che poi infila sotto il pastrano, sul cuore... «È la sacralità del cibo in tutte le famiglie contadine – commenterà Olmi intervistato da Gian Antonio Stella, del “Corriere della Sera” –. Perché la sacralità del cibo è capita soprattutto da coloro che producono il cibo. Vedono la zolla. La trattano. Piantano il seme. Quello cresce. Diventa pane. Se non è un miracolo di vita questo!».
Torniamo ora al capolavoro sconosciuto di cui sopra. 700 anni è un documentario, realizzato per la Rai, su sant’Antonio e quel che gira attorno alla sua figura. Lì Olmi c’è tutto: la sua genialità, la vena poetica, la felicità del narrare un mondo animato da quella gente umile e semplice che sarà protagonista dei suoi film. Ecco come sono andate le cose. Nel 1963 ricorrevano i 700 anni dalla prima ricognizione delle spoglie mortali di sant’Antonio, nella quale la lingua del Santo venne prodigiosamente trovata incorrotta, a 32 anni dalla morte del religioso. La ricorrenza meritava d’essere celebrata con manifestazioni proporzionate all’evento. Tra queste, i frati della Basilica previdero anche un servizio televisivo che speravano di affidare al giovane regista bergamasco (che già aveva dimostrato talento creativo nei film Il posto e I fidanzati, e che era stato «catalogato» dalla critica come cattolico): Ermanno Olmi, appunto.
L’incontro a Milano col regista, sul cui tavolo i frati – Vitale Bommarco, Francesco Saverio Pancheri ed Elia Bruson – scaricarono mezza dozzina di biografie del Santo, ebbe esito positivo. Le riprese in bianco e nero furono realizzate nel periodo in cui più vivace è la presenza dei devoti in Basilica, momento che coincide con la festa del Santo, il 13 giugno. Oggi il lungometraggio si può seguire integralmente su YouTube, purtroppo in una versione sbiadita che non rende giustizia alla sua bellezza. Chi l’ha visto nella copia originale ricorda la freschezza delle immagini, l’obiettivo che indugia con delicatezza e rispetto, quasi con pudore, sui volti delle persone per coglierne dai tratti i sentimenti e i pensieri, espressi anche a voce da alcuni devoti, sollecitati da Olmi stesso, che rivelano toccanti storie.
In tutta la pellicola aleggia un clima di festa e speranza che stempera l’ansia di chi porta con sé drammi pesanti come macigni. Tra giostre, bancarelle e panini addentati all’ombra dei chiostri, a tratti si respira nel documentario quasi un’atmosfera di sagra paesana. In attesa della processione, fitte siepi di devoti bordano le vie della città, tra preghiere e canti. Nulla li scoraggia, neppure le avvisaglie di maltempo che ha già riversato scrosci d’acqua sui partecipanti alla rievocazione storica del «transito» del Santo (il viaggio di Antonio morente da Camposampiero all’Arcella, su un carro trainato da buoi). Tutto questo per ricordare sant’Antonio nel suo aspetto più conosciuto e amato, quello di taumaturgo, cioè di formidabile intercessore di miracoli presso Dio.
Dal documentario, tuttavia, emerge anche un altro lato del frate portoghese: quello del predicatore, che in vita lo rese altrettanto famoso. I suoi Sermoni, da lui stesso trascritti e giunti sino a noi, ci rivelano un oratore provvisto di una straordinaria conoscenza della Scrittura, fustigatore di vizi e schierato in difesa dei poveri, spesso vittime di sopraffazioni e ingiustizie, i cui autori egli riprendeva con coraggio invitandoli alla carità di Cristo. Le riflessioni di Antonio furono una vera sorpresa per Olmi, che ne inserì nel documentario alcuni brani significativi, affidandone la lettura all’attore Carlo Campanini.
Il documentario 700 anni è anche all’origine dell’amicizia che ha legato a lungo il regista con il «Messaggero di sant’Antonio». In particolare con padre Pancheri, che allora ne era il direttore, e Gino Lubich, il caporedattore del mensile, premiato assieme a Olmi con la medaglia d’oro del Centenario (Olmi per 700 anni e Lubich per l’articolo su sant’Antonio pubblicato in «Città nuova»). Il regista aveva messo su casa e famiglia ad Asiago, a un’ora d’auto da Padova. A volte era lui a scendere dall’Altipiano per venirci a trovare.
Ricordo quando lo accompagnai per giorni in giro per la città a scattare foto della Basilica e dei dintorni. Doveva realizzare un libro fotografico commissionatogli dal «Messaggero di sant’Antonio». Scattò centinaia di foto, ma il progetto poi si incagliò. I committenti si aspettavano immagini patinate del Santuario, ma Olmi preferì cogliere la vita che vi pulsava dentro, raccontandola anche con immagini cromaticamente alterate per esprimere meglio le situazioni e i sentimenti sottostanti. Più spesso, eravamo noi a raggiungerlo nella bella casa alle pendici di un monte, vicino a quella di Mario Rigoni Stern, il leggendario «sergente nella neve » e del critico cinematografico Tullio Kezich.
Olmi ci incantava ogni volta con il racconto dei suoi film. Poi, inevitabilmente, nei discorsi s’infilavano i problemi del momento: le inquietudini e gli smarrimenti dell’uomo moderno che, smanioso di autonomia, andava disconoscendo valori affermati e riferimenti, finendo col ritrovarsi solo e vuoto. E poi le brutture di una società sprecona e ingiusta, che i giovani contestavano, sempre più tentati dal ricorso alla violenza. Ci si chiedeva che cosa la Chiesa e noi stessi, rileggendo il Vangelo, avremmo dovuto fare per collaborare alla creazione di un mondo diverso, più umano e solidale. E fiorivano idee, proposte e progetti mentre percorrevamo sentieri che attraversavano prati profumati di fiori e di fieno… Quasi una riunione di redazione fuori sede, estemporanea, che forniva stimoli al nostro lavoro.
Ermanno Olmi era legato al «Messaggero di sant’Antonio», perché rappresentava l’espressione di un mondo che lo incuriosiva, con la sua fede semplice, i riti, le storie di vita e di prodigi, a volte raccontate nei «per grazia ricevuta» con nativa ingenuità di tratto. Fu sua la proposta, poi realizzata, di utilizzarle come immagini per un calendario antoniano. Gigante della cinepresa Ermanno Olmi nel 2007, mentre posa per i fotografi al Festival di Cannes. Il regista, nato a Bergamo nel 1931, è morto nella notte tra il 6 e il 7 maggio scorso ad Asiago (VI).