Pastori, figli di Sardegna
Crescere in un piccolo paese può risultare, agli occhi di un cittadino, un destino crudele, fatto di pochi amici, pochi svaghi, poche opportunità. Ma, per chi ci è nato e si è poi trasferito in una grande città, come chi scrive, essere lontani dal proprio paese di origine genera, col senno di poi, altre mancanze. In città, infatti, si fa esperienza del contatto quotidiano con il «non familiare» e con una complessità che attraversa la vita di ogni giorno. Non familiare è il vicino di posto quando, giorno dopo giorno, prendi l’autobus o la metro per andare a scuola o al lavoro; non familiare è il paesaggio della città quando si cambia quartiere; non familiari sono i cibi che si mangiano a casa del compagno di classe i cui genitori sono di origine immigrata, e così via.
Un contatto con il non familiare che, però, con il passare del tempo, diventa parte del proprio vissuto quotidiano e che rende la vita ordinariamente varia.
Al contrario, crescere in un piccolo paese comporta il continuo contatto con le medesime situazioni, gli stessi luoghi e le stesse persone, e questo può rendere meno «pronti» quando ci si trova di fronte alla complessità della metropoli. In un piccolo paese, però, c’è di buono che le cose stra-ordinarie arrivano più forti e anche l’attesa si fa evento.
La prima volta che sono stata in Sardegna è stata proprio alla vigilia di un evento: il Festival dei tenores di Thiesi (Su Consonu Santu Juanne de Thiesi) all’Archeoparco del nuraghe di Santu Antine di Torralba (SS). Di fronte a un paese silenzioso e deserto, ho avuto subito la sensazione che quel silenzio e quella solitudine nascondessero molto di più, come la coperta che cela, e al contempo protegge, l’impasto che lievita. E infatti, appena arrivata, sono stata ricevuta senza alcuna formalità in un luogo magico, al pari di un laboratorio di essenze per il profumiere o di una dispensa traboccante per un aspirante cuoco. Sono entrata, quando era già sera, in uno dei capannoni all’estrema periferia del paese. Luci al neon, pareti spoglie e tavoli d’acciaio: è qui che i pastori di Thiesi lavorano quando non sono al pascolo, discutono, si rilassano. Ed è qui, in altre parole, che si riconoscono e si rafforzano come comunità.
Mentre eravamo lì, il più anziano presidiava un pentolone di acqua bollente con al suo interno il piatto della serata che rimestava con cura: sangue di pecora cotto dentro lo stomaco svuotato dell’animale, legato con una corda in modo da fungere da sacca. Il sangue così preparato sarebbe servito, poi, a condire pane e formaggio. Intanto gli altri, più giovani, mettevano pezzi di carne sullo spiedo, mentre altri ancora caricavano e scaricavano pezzi di animali macellati. Nel frattempo, ci si intratteneva con il vino, la morra e, infine, la musica che è arrivata come un dessert inaspettato. Il canto a tenore, cui ho assistito in anteprima sotto le luci fredde del neon, è diventato, dal 2005, Patrimonio immateriale dell’Unesco. Non c’è una data certa a cui farlo risalire, è però indubbio che esso esista solo in Sardegna. È un canto a tre o quattro voci maschili, in cui c’è un solista che propone i testi e tre voci che lo accompagnano, una in falsetto e le altre due, in toni molto più bassi, profonde e gutturali. Ed è un canto emozionante quanto evocativo. Ecco, per me questo è stato il vero spettacolo. Una sintesi, in termini cinematografici si direbbe un trailer, della cultura pastorale sarda in un giorno di festa.
In vigilie come questa, il lavoro ha un gusto diverso, il gusto delle celebrazioni: una quotidianità momentaneamente interrotta e l’attesa che rende tutto più eccitante. E come le quinte di un teatro nascondono il segreto della bellezza che ci viene presentata come «vergine» in scena, anche qui si è preparato uno spettacolo in cui i pastori erano i protagonisti. I loro corpi erano forti, essenziali. Come la loro ospitalità. E più si beveva, più traspariva la curiosità verso la mia breve intrusione nella loro vita.
Il giorno dopo, tutto si è svolto secondo copione – stand, spiedi, presentazioni – aspettando la musica e il canto dei tenores. E in questa giornata l’elemento che ancora una volta mi ha stupito, aggiungendosi alla bellezza della sera precedente, è stato l’abito dei pastori. Il velluto marrone a coste sottili, il cappello, gli stivali. È l’abito della festa, non un abito qualsiasi, e per questo indossato con una fierezza antica come il canto a tenore, come la lingua sarda che ti parla senza parlare e ti racconta una storia millenaria che attende solo di essere ascoltata