Un calcio alla malattia nel nome di Antonio
Anche il Santo scende… in campo. Lo fa con una storia che intreccia sogni, speranze, la sconfitta della malattia e la rinascita. Grazie a sant’Antonio e a un calcio a un pallone.
Mitico stadio Appiani, proprio quello dei grandi successi del Padova di patròn Nereo Rocco. Quarta giornata di ritorno del girone B della serie B del campionato femminile 2017. Dopo l’esaltante, sia in campo che sugli spalti, partita contro l’Inter, il Calcio Padova femminile affronta un’altra squadra blasonata, il Milan.
La competizione ha un avvio insolito, davvero speciale. A dare il calcio d’inizio è una ragazza di Sassari. Capelli corti neri, sorriso irresistibile. Si chiama Antonella Bua. Ha chiesto di poter compiere questo gesto per onorare una promessa fatta anni fa alla madre, grande devota di sant’Antonio, la cui fede ha aiutato la famiglia sarda negli anni in cui Antonella ha dovuto far fronte a una grave malattia.
Un’iniziativa promossa fortemente proprio dall’Avis, partner da un paio d’anni del Padova femminile e di cui Antonella è testimonial a livello nazionale. Prima del fischio d’inizio il suo calcio al pallone, lo sguardo e il pensiero a sant’Antonio, e la consegna da parte dei dirigenti di una targa, una maglia biancoscudata e una della Nazionale.
«Sono nata a Sassari – esordisce Antonella, raccontando la sua storia –. Per molti anni ho abitato a Oschiri, un piccolo paesino in cui sono nati i miei genitori e dove abbiamo trascorso la maggior parte delle nostre vite. In seguito, mi sono trasferita a Sassari. Purtroppo oggi non ho più né la mamma né il papà. E quando i genitori se ne vanno via, rimane un vuoto profondo, indicibile. Non mi manca nulla a livello materiale. La vera assenza, per la quale soffro tutti i giorni, è la loro. Hanno fatto tantissimo per me: è come se mi avessero dato la vita due volte».
La storia di Antonella comincia, in fondo, da qui. E da una malattia che, proprio in Sardegna, registra il maggior numero di persone colpite: la talassemia o anemia mediterranea. «Anch’io sono talassemica – confida Antonella –. Fino a 6 anni mi sono sottoposta, come tanti malati, a continue trasfusioni di sangue. Poi, i miei genitori hanno saputo che a Pesaro c’era un medico ematologo che effettuava i primi trapianti di midollo osseo in talassemia: Guido Lucarelli. E mi ci hanno condotto».
Il medico della speranza Scienziato, ideatore e pioniere di questo tipo di trapianti, Lucarelli (padre dello scrittore Carlo) è considerato il maggior esperto al mondo nella cura della talassemia. Si laurea a Bologna, dove inizia la sua attività che prosegue poi a Parma.
Nel 1978 si reca a Seattle, Usa, al Centro Trapianto di Midollo Osseo del Fred Hutchinson Cancer Research Center e poi alla Washington University con una borsa di studio della International Cancer Society.
Al rientro istituisce a Pesaro, alla Divisione di Ematologia, il Centro Trapianto di Midollo Osseo ed esegue il primo trapianto allogenico il 24 gennaio 1980. Negli anni, con i suoi collaboratori, effettua più di 1.500 trapianti, circa la metà di tutti quelli fatti nel mondo per la talassemia.
«I miei genitori si sono incontrati con il professor Lucarelli in Sardegna – prosegue Antonella –, proprio per tentare la strada del trapianto. Ho avuto la fortuna di trovare in mio fratello un donatore compatibile. L’intervento è avvenuto il 21 giugno 1984 a Pesaro e non in Sardegna dove, all’epoca, non erano ancora stati avviati i Centri trapianto».
E sant’Antonio in che modo entra in tutta questa storia? «Mia madre è sempre stata molto religiosa. Quando pregava era solita affidarsi a sant’Antonio. Una grande devozione, la sua, che partiva molto prima della mia nascita e che quanto accaduto ha reso ancora più profonda.
Mia madre a lungo è ricorsa ad Antonio, lo ha pregato insistentemente per la mia guarigione. E lui ha fatto, in un certo senso, da intercessore tra Dio e il medico che mi ha salvato. Il mio caso non rientra, infatti, tra quelli “inspiegabili”. Però io mi sento di definirlo, senza alcun dubbio, un miracolo, perché, se sono viva, lo devo alle tante persone che ho incontrato che hanno voluto scommettere su di me, certe di potermi salvare. E in questo ci vedo l’azione del Santo: è stato lui, ne sono certa, a instillare questa speranza nel medico e nel personale sanitario.
Così, da quando sono guarita, ho sempre avuto il desiderio di venire in Basilica a Padova per ringraziare sant’Antonio». Anche la mamma di Antonella avrebbe voluto venire a Padova, ma, purtroppo, non è mai riuscita a esaudire il suo sogno. Al posto suo, però, è venuta Antonella. Ed è accaduto quasi per caso, complice la sua passione per il calcio.
«Il Calcio Padova femminile, nello scorso campionato, aveva nel suo girone anche due squadre sarde. Sono stata subito colpita, seguendo il girone, da un particolare: nel gagliardetto che reca il simbolo della squadra padovana c’è il logo dell’Avis. Questa scelta mi ha emozionato.
Anche se non posso donare, collaboro infatti con l’associazione. Vengo spesso chiamata per portare la mia testimonianza di vita nelle scuole medie inferiori, nelle superiori e anche all’Università (sono stata, ad esempio, in quella di Macerata). Ho partecipato allo spot “Dialetti solidali”, in occasione dei 90 anni dell’Avis nazionale».
Quel calcio d’inizio è stato dato durante una gara dello scorso campionato, ma Antonella spera di poter fare il bis. È lei stessa, tornata in Basilica lo scorso luglio, ad assicurare che sarà di nuovo a Padova quanto prima, magari in occasione di una partita del campionato in corso.
Nel salutarci, Antonella lancia un appello ai lettori del «Messaggero di sant’Antonio»: «Ricordate che donare il sangue e il midollo osseo è fondamentale: con un gesto relativamente piccolo, si possono salvare tante vite umane».