Santi perdenti
Perdere non piace a nessuno. Che sia la finale di qualche competizione sportiva, una partita a tresette o una discussione, fa lo stesso: il secondo posto basta appena per un po’ di mesta consolazione. Ma la perdita «brucia»: è come se qualcosa di noi venisse messo in discussione, e noi stessi ci ritrovassimo più poveri, meno perfetti, retrocessi dietro a chissà chi. Proviamo educativamente a convincere i nostri ragazzi: «L’importante non è vincere, ma partecipare», eppure non ci crediamo neanche noi: ma dove?! La parola «sconfitta» è pesantemente caricata di significato negativo, e gli «sconfitti» non sono propriamente una categoria umana di cui ci piace far parte. Perché vincere ha a che fare con la nostra identità: ciò che crediamo o vorremmo essere, la prova incontrovertibile della nostra dignità e validità. E non può, per certi versi, che essere così.
Quest’anno, noi francescani, ricordiamo gli ottocento anni dell’incontro tra san Francesco e il sultano ayyubide Malik Al-Kamil, avvenuto a Damietta, sul delta del Nilo, dove gli eserciti crociato e musulmano si fronteggiavano armati fino ai denti, e più esattamente nella tenda del sultano stesso, nel campo nemico. Giustamente facciamo memoria di questo incontro, testimoniato da molte fonti storiche anche non francescane, che è stato possibile solo per la santa follia di chi, probabilmente da una parte e dall’altra della barricata, si è concesso il lusso di credere nell’accoglienza reciproca. Ma, d’altra parte, non possiamo nasconderci che la missione del Poverello di Assisi… fallì: non riuscì a convertire il sultano alla fede cristiana né a impedire che i due eserciti si scannassero a vicenda. Concludono frustrati i Fioretti: «Alla perfine, veggendosi santo Francesco non potere fare più frutto in quelle contrade, per divina revelazione sì dispuose con tutti li suoi compagni di ritornare tra li fedeli».
Qualcosa del genere ci è dato leggere anche nella vita di sant’Antonio. Che ebbe a che fare con Ezzelino da Romano che, quanto a brutta fama, era per lo meno alla pari di Malik Al-Kamil. I padovani gli avevano infatti chiesto di intercedere presso il sanguinario tiranno per la liberazione di alcuni prigionieri. Ma il suo viaggio della speranza a Verona fu un sonoro insuccesso, giacché neanche la sua fama era riuscita a intenerire il cuore di Ezzelino: «Non esaudito in alcuna delle richieste, tornato a Padova, volle condurre la sua vita in una località quasi disabitata» (Cronica di Rolandino), leggendo tra le righe del cronista quasi un Antonio deluso.
Eppure… forse lo penso solo per giustificarmi, per «incartarmi e portarmi a casa» come si dice dalle mie parti, le mie (tante) sconfitte. O, forse, in quanto sono appena tornato da una visita a una cara amica, che il cancro sta spegnendo dolorosamente, e lei e io ci domandiamo il perché, e nessuno dei due ha una qualche plausibile risposta che non sia di circostanza. Fatto sta che mi piace (mi consola?) pensare a san Francesco e sant’Antonio quali due grandi, grandissimi santi, ma perché… perdenti. Due santi che avevano numeri, spirituali e umani, da accampare e di cui vantarsi. Che potevano fare conto sulla propria fama religiosa, almeno come materia di scambio per ottenere ciò che inseguivano. Che erano in grado di spendersi un’autorevolezza conquistata sul campo e indiscussa. Ma che, allo stesso tempo, fecero esperienza, nella sconfitta cocente, che il loro valore, la loro dignità, non dipendevano dal successo più che dall’insuccesso, dai risultati più che dalle sconfitte, o viceversa. Quanto piuttosto dal sapersi, in ogni istante della vita, al sicuro tra le mani di Dio.
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