Schiavi del terzo millennio
Bangladesh, un Paese tristemente noto per la povertà e le calamità naturali, ma non altrettanto per le sue straordinarie bellezze naturalistiche, per i dimenticati siti archeologici dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità e per le genuine popolazioni non ancora contaminate dal turismo.
Natura e archeologia da scoprire Il Parco Nazionale di Sundarbans, la più vasta foresta di mangrovie del pianeta, nel mezzo del delta del Gange; il lago Kaptai, luogo di incantevole bellezza dove, all’interno dei villaggi adagiati sulle rive, vivono le popolazioni Chakma; il sito archeologico di Puthia, a imperitura memoria dell’antico splendore di questa civiltà; le rovine del monastero buddhista di Paharpur, il più grande mai costruito a sud dell’Himalaya. E poi l’originale capitale: Dhaka, con i suoi 600 mila coloratissimi rickshaw che contrastano piacevolmente con la modernità dell’edificio del Parlamento, capolavoro dell’architetto americano Louis Kahn.
Purtroppo, nell’ultimo periodo il Bangladesh è stato al centro della cronaca per una serie di esecrabili attentati compiuti dall’Is; in uno di essi, ricorderete, sono morti nove cittadini italiani. In quell’occasione si scoprì che nel Paese asiatico è attiva una nutrita comunità italiana, composta per lo più da imprenditori e lavoratori del tessile. Un settore molto importante, questo, per il Paese, anche se spesso le condizioni di lavoro dei suoi occupati sono molto critiche: bassi salari, sfruttamento del lavoro minorile, orari massacranti. Non è un mistero che da tempo la delocalizzazione al di fuori dei confini dell’Italia (che ha comportato una profonda crisi del settore), ha portato alcune grandi imprese ad appaltare la produzione a vere e proprie strutture di sfruttamento, in cambio di maggiore profitto. E il Bangladesh è uno dei centri privilegiati di questo meccanismo.
Fabbriche della morte Nel Paese asiatico, infatti, si lavora sette giorni su sette, dall’alba al tramonto, senza riposo. I bambini tra gli 8 e i 14 anni costretti a lavorare nelle tessiture sono più di un milione. Svolgono mansioni di ogni tipo, dall’applicazione dei bottoni alle giacche, fino alla pulizia dei macchinari. Il salario medio di un operaio tessile si aggira intorno ai 400 dollari l’anno; i bambini, invece, arrivano a malapena ai 250 dollari.
Le fabbriche della morte non si fermano mai. Secondo una stima dell’International Labor Rights Forum, dal 2006 hanno perso la vita ben 2 mila operai tessili in incidenti dovuti alle scarse condizioni di sicurezza nei luoghi di lavoro. Ricorderete in molti il crollo di una fabbrica a Dhaka, nel 2013, nella quale persero la vita 1.200 operai, tra cui molte donne e bambini. Allora una nota azienda italiana risultò coinvolta in quanto appaltatrice di migliaia di capi di abbigliamento. Le immagini delle etichette poste sui capi, con il logo in evidenza, fecero il giro del mondo.
Rose e sorrisi lungo la strada Nonostante tutto, in questo angolo di mondo si continua a lavorare e a morire per un misero stipendio. Le imprese italiane tutto questo lo sanno, come sanno benissimo che non sono lì a fare filantropia. Mi piace ricordare questo Paese per la cordialità con cui la sua gente ti offre una rosa, per il sorriso che sanno regalare a ogni angolo di strada, e per la pubblicità appesa alla parete dell’ufficio turistico della capitale: «Visit Bangladesh, before the tourists come!» cioè «Visita il Bangladesh prima che arrivino i turisti!».
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