Sete di giustizia
Siamo a Teheran. Un banale incidente d’auto cambia la vita di un medico legale benestante, il dottor Nariman, il quale investe di notte un motociclista e la sua poverissima famiglia (aggrappata allo scooter), procurando un lieve trauma cranico al bambino di 8 anni. Nariman reca i primi soccorsi e si offre di portare il ferito a un vicino pronto soccorso. Ma il padre rifiuta aiuto, soldi e consigli. Per ignoranza, risentimento e paura, l’intervento d’urgenza viene rimandato e sono minimizzate le possibili conseguenze sanitarie.
Alcuni giorni dopo, il medico scopre che quel ragazzo è deceduto ed è stato portato per l’autopsia proprio nel servizio ospedaliero pubblico, in cui egli lavora. Diagnosi: decesso per tossinfezione alimentare. La cosa potrebbe finire lì. Dovrebbe finire lì, secondo il parere dei colleghi (compresa sua moglie), ma il dottor Nariman è un professionista diligente e un uomo scrupoloso. Nariman ricorda che la vittima accusava dolori alla nuca. Dunque non si può escludere che la morte sia dovuta al trauma stradale. Bisognerebbe appurare, con una seconda autopsia, la gravità del danno encefalico. Ma ne vale la pena?
Con piglio apparentemente neorealistico e con asciutto stile narrativo, alternando lunghi silenzi ai rumori ambientali, il regista Jalilvand ricostruisce il tormento morale di un personaggio introverso, spinto dalla testarda sete di giustizia a forzare i regolamenti di polizia mortuaria e a seguire in prima persona le indagini, che rivelano la cattiva igiene e il malaffare nella produzione di alimenti. L’inchiesta del medico corre in parallelo con quella, rabbiosa e violenta, condotta dal papà del piccolo defunto, anch’egli assediato dal terrore di aver dato da mangiare cibo avariato alla famiglia. Sono due anti-eroi, feriti nell’orgoglio e disposti, se occorre, a denunciare se stessi o altri per incuria, complicità, omertà.
La grande letteratura ha messo a fuoco la stupida e impaurita banalità di chi minimizza il senso del dovere e ridicolizza la sensibilità etica. Ben prima di Freud, i tragici greci e scrittori come Dostoevskij o Balzac hanno denunciato e corroso le facili attenuanti con cui il crimine sotterraneo tenta di autoassolversi. Chi riconosce di aver procurato torto a qualcuno va aiutato a sopportare la vergogna, a realizzare i propri limiti, a individuare le cause, a condividere il peso di questa lordura, a chiedere scusa e a esibire disponibilità nel sanare o lenire il dolore provocato. Se questo faticoso ma necessario lavoro interiore non viene realizzato, il rimorso diventa muto, cattivo e autolesivo (come un cane che rincorre per «mordere», secondo l’etimologia latina), come una furia torturante che toglie il fiato e impedisce di chiedere perdono e di sperare in una misericordiosa rinascita.
Pluripremiato alla mostra di Venezia del 2017, il soggetto del film è stato presentato dal regista, nato a Teheran nel 1976, con queste parole: «Ci siamo fatti una strana idea dei vigliacchi, ma essi sono esattamente come noi. Forse riproducono persino il nostro comportamento. Un comportamento crudele che giustifichiamo in nome della saggezza. Quante volte la paura e l’incapacità di esprimere la semplice verità hanno provocato disastri nelle vite altrui?».
Il cinema ama il dubbio. Andare al cinema significa esporsi a una visione imprevista, che urta contro primitive certezze (proprio come nell’incidente stradale di questa pellicola) e ci interroga: abbiamo scelto la storia giusta? Abbiamo fatto torto a vicende altrui? Abbiamo sostituito la sterile fantasia alla vita reale? Il film è un’anatomia delle emozioni, la quale può essere condotta con rigore o invece con imprecisione, come nel cinema d’evasione. Il patto narrativo, che un regista ci propone, va accolto con coscienza critica, perché la verità si mostra solo per lati, gradualmente, ed esige la stessa delicata premura, che merita un bambino ferito e spaventato.
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