Testimoni e combattenti
Un grande saggio biografico di Mariangela Maraviglia, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (Morcelliana) rende giustizia a uno dei protagonisti della vita religiosa e culturale italiana dagli anni Quaranta agli anni Novanta dello scorso secolo. Padre Turoldo, servita, nacque in Friuli nel 1916 (è morto nel 1992) in una famiglia di cui ha narrato in uno scritto bellissimo, Io non ero un fanciullo (e in un brano commovente, Polenta mia, elogio del cibo essenziale della sua infanzia, che è il testo suo che ho più amato) e nel film Gli ultimi di Vito Pandolfi, bello e sfortunato ma che ebbe un acceso ammiratore – anche per vicinanza «geografica e storica» – in Pier Paolo Pasolini.
La vitalità di Turoldo, talvolta incontenibile, lo trascinò nella Resistenza e, poi nella Milano della ricostruzione a fianco del suo grande amico padre Camillo De Piaz, vicino ad altri preti indomiti quali don Zeno a Nomadelfia e Mazzolari a Vicenza, a Dossetti a Bologna, a Vannucci Balducci Milani in Toscana, e più tardi a Martini a Milano e a tanti nomi del mondo laico più radicale (e ho il ricordo di vivaci incontri con Turoldo e De Piaz nella libreria della Corsia dei Servi, o delle loro accese discussioni con Camilla Cederna, con Giovanni Testori...).
Nel 1952 le sue posizioni politiche gli valsero la «cacciata» da Milano da parte delle superiori autorità religiose. Passò lunghi anni nella Firenze di La Pira e più tardi a Sotto il Monte, ma rimase Milano il perno delle sue attività, e la libreria della Corsia dei Servi. Fu particolarmente attivo negli anni del Concilio, e sempre fedele a quel messaggio. E fu anche il miglior rappresentante, in un’epoca di grande rigoglio della nostra letteratura, di una poesia religiosa d’alta retorica e d’alta convinzione. Una attività «quantitativamente prodigiosa», quella di padre Turoldo, dice la sua biografa. Una figura di cui si ha nostalgia anche se talvolta la sua esuberanza poteva irritarci.
Mi ha colpito la pubblicazione di un altro libro su un personaggio che invece ho visto solo da lontano e col quale non ho mai avuto modo di parlare. È il minuzioso saggio di un’altra storica, Elisabetta Francioni, su Luciano Bianciardi bibliotecario a Grosseto (1949-1954) edito dalla benemerita Associazione Italiana Biblioteche. Tutt’altra storia, ma non mi stupirebbe che i due si siano incontrati, da contemporanei, perlomeno fino al 1971 quando Bianciardì morì (o si lasciò morire, bevendo…), non ancora cinquantenne. Autore di libri irriverenti e vitali il più famoso dei quali è La vita agra, non amò, vicino in questo a Pasolini, il «miracolo economico» e non seppe starci dentro come invece seppe, animato da una forte fede religiosa, padre Turoldo.
Non voglio tessere l’elogio del credente sul non credente, e onestamente mi identifico più con Bianciardi che con Turoldo, ma mi ha colpito il paragone tra un combattente strenuo e persuaso e un altro che, non meno dotato e non meno intelligente, trascinato con convinzione dalle speranze del dopoguerra, non sopravvisse alla mutazione del boom (e chissà cosa avrebbe detto di quella attuale!). Non credo si tratti solo di fede, o di diversa lucidità storica, ma il confronto mi si è imposto proprio pensando al nostro tempo, e alla scomparsa di personaggi di questa levatura morale e civile – sia sul fronte dell’ostinazione che su quello della disperazione.