Poesia che cura
Il gioco dei nomi in Nicaragua è stupefacente. In quel Paese ho conosciuto uomini e ragazzi che si chiamavano Nabuccodonosor, Adonis, EltonJohn e MikeTyson. E, alla fine, ho incontrato Lenin: 10 anni e un tumore cresciuto nella sua testa. La sua pelle è bruciata dalla radioterapia. Le ossa si sono dilatate per non spezzarsi, il cranio si è deformato. I suoi occhi sono lucciole diurne nella luce dell’ospedale La Mascota di Managua, il principale centro pediatrico del Nicaragua. I gesti di Lenin sono lenti, il suo sorriso è cenere. Ed è dolcissimo. Le sue mani cercano l’aria, il suo corpo mi appare fluido, privo di consistenza. È seduto su una panchina gialla, stretto a sua madre nel piccolo giardino-parco giochi dell’ospedale. Per raggiungere Managua, hanno dovuto viaggiare quasi due giorni. Vengono dalla costa atlantica del Paese. Lenin ha la leucemia.
In Nicaragua il 40 per cento dei tumori infantili è provocato dal cancro del sangue. «È un’anomalia – spiega Fulgencio Baez, 66 anni, primario del reparto oncologico di La Mascota –; nei Paesi sviluppati (i tumori giovanili che colpiscono il sangue, ndr) sono il 28 per cento. Noi sospettiamo che questa sia la conseguenza dei pesticidi e degli antiparassitari usati senza scrupoli per decenni nelle piantagioni di cotone e di mais». Lenin si alza, cerca un equilibrio. Poi dondola sull’altalena con Roberta, la sua dottoressa. La madre, stanchissima, appoggia la schiena sulla panchina di cemento giallo. Questa è una storia di poesia e di sfida alla malattia.
In cerca di futuro «Io non aspetto il giorno del giudizio finale con particolare ottimismo, ma prevedo che una delle poche cose positive che mi verrà detta sarà: “Io ero un bambino malato di cancro e tu mi hai insegnato a fare poesia”». Ernesto Cardenal, 90 anni, monaco e poeta, più volte ha varcato la porta dell’ospedale La Mascota per parlare di poesia con i piccoli colpiti dal tumore. La Mascota era il soprannome di un bambino che morì schiacciato da un carro armato nei giorni dell’insurrezione contro la tirannia che aveva oppresso il Nicaragua per quasi mezzo secolo. Trent’anni fa, complice una cena (al tavolo vi era il farmacologo italiano Gianni Tognoni e lo scrittore argentino Julio Cortázar), Fernando Silva, poeta, romanziere e pediatra, magro come un chiodo e dagli occhi come scintille, si fece convincere.
In quegli anni il Nicaragua cercava di rinascere, nonostante la controrivoluzione sanguinosa, armata dalla Cia nordamericana, e le eredità di vent’anni di guerra e mezzo secolo di dittatura. I bambini, allora, morivano di diarrea, di malattie respiratorie, di infezioni. C’era un’epidemia di dengue. Vi era da vaccinare una generazione di ragazzi che mai avevano visto un medico. Tutto era emergenza. E per i bambini che, troppo tardi, arrivavano a Managua con ossa e sangue devastati da un tumore non c’era scampo. Finivano nei reparti «normali» dell’ospedale e morivano per un’influenza. In quella cena, Gianni Tognoni suggerì a Fernando Silva di scrivere a un pediatra di Monza, Giuseppe Masera, che allora dirigeva il reparto di pediatria dell’ospedale San Gerardo. Scrisse Fernando: «Quando a un bambino facciamo una diagnosi di leucemia o di cancro, poniamo accanto al suo nome una crocetta nera. È destinato a morte certa. Non abbiamo farmaci, specialisti, strutture per curare e offrire almeno una speranza di guarigione». Fernando era un poeta. E anche Giuseppe lo era. Entrambi lo sono ancora. Per loro, la morte di un bambino era ed è intollerabile.
Oggi Fulgencio Baez mi dice: «Solo due poeti, in quegli anni così difficili per il Nicaragua, potevano pensare che fosse possibile dare un futuro a quei bambini». E Fulgencio, allora poco più che trentenne, era il responsabile della sanità pubblica di Managua. Silva, Fulgencio, Tognoni e Masera (e una generazione di medici, famiglie, bambini, cooperanti) costruirono un’utopia. L’alleanza tra medici italiani e nicaraguensi, tra l’ospedale di Monza e quello di Managua, fu straordinaria. «Cominciammo a lavorare sulla formazione professionale, sugli uomini e le donne che dovevano lavorare nei nuovi reparti. Avevamo bisogno di farmaci. Dovevamo costruire infrastrutture e mettere a punto protocolli sanitari – ricorda Fulgencio –. Un lavoro immane nel quale lavorammo alla pari. Ogni passo doveva essere, per noi, auto-sostenibile». Nacque allora Mapanica, un’associazione di familiari dei bambini malati.
Negli anni delle politiche liberiste non c’erano più farmaci in Nicaragua. Gli italiani si davano da fare per far avere medicine là introvabili e costose. Il patto tra i due ospedali doveva durare cinque anni. Trent’anni dopo il filo rosso tra due Paesi così lontani è ben teso. È un’amicizia, una storia comune, un darsi la mano. «È accaduto che i laboratori tecnici dove si faceva ricerca e si formavano medici e infermieri hanno funzionato come i talleres de poesía (corsi di poesia, ndr)» spiega Gianni Tognoni. Credo che voglia dire che hanno reso realtà un sogno. Fulgencio mi dice due numeri: «Prima del 1990, soltanto dodici bambini vinsero la sfida della malattia. Oggi mille e settecento stanno vivendo il loro futuro». Al fianco dei piccoli pazienti ci sono otto ematologi a La Mascota. Dodici chirurghi. E infermieri ben formati.
«Pochi, ancora pochi – riflette Roberta Ortiz, pediatra ed ematologa –. Questi reparti sono complessi e un’infermiera deve star dietro a diciotto bambini. Sono troppi». È bene che si sappia che un medico così specializzato a Managua guadagna 300 dollari al mese. Un’infermiera 250 dollari. Il primario, Fulgencio, a un passo dalla pensione, ha uno stipendio di 500 dollari. Con 300 dollari al mese non si vive nella capitale del Nicaragua. Ma io ho visto tenacia, entusiasmo, forza, passione, sorrisi in questi uomini e donne. Li ho visti giocare con bambini e aiutare chi non ha speranza. I medici sono diventati sociologi. In risposta ai lunghi viaggi che i bambini devono affrontare per raggiungere l’ospedale La Mascota, hanno costruito un hotelito (un piccolo ricovero) aperto alle famiglie. La medicina non è solo cura.
Terapia in versi Nel 2004, in Italia, Giuseppe Masera incontrò Ernesto Cardenal. Il monaco-poeta era candidato al premio Nobel per la letteratura. Giuseppe sapeva dei taller de poesía che Ernesto, ministro della Cultura del suo Paese negli anni ’80, aveva organizzato tra contadini e carcerati, anziani e infermi. Gli propose, allora, di fare poesia assieme ai bambini de La Mascota. E questo nonno, all’epoca 80enne, accettò. Portò con sé una piccola pattuglia di poeti (Julio Valle-Castillo, William Agudelo, Daysi Zamora, Luz Marina Acosta). Leggeva Walt Whitman. Sapeva come cambiare le parole delle poesie, come farle capire, come condurre i bambini alla scrittura o all’ascolto. La sua poesia era semplice, essenziale. In fondo era stato lui, come ministro della Cultura, a pretendere che, in Nicaragua, il diritto alla poesia fosse inserito nell’elenco dei beni indispensabili. Così, a La Mascota «la poesia ha emozionato i bambini – ricorda Fulgencio –. Hanno ascoltato. Hanno scritto. I loro padri hanno scritto poesie. È stata un’allegria che prosegue ancor oggi con la lettura o i clown. Io non so darti certezze scientifiche, ma so che un bambino sereno reagisce con coraggio alla malattia. So che questa terapia funziona».
Oggi il 40 per cento dei bambini che entra a La Mascota con la leucemia ne esce guarito. «Siamo lontani dai risultati dell’Occidente, ma ci proviamo. Siamo altrettanto consapevoli che un terzo dei bambini abbandona la terapia, una volta tornato al suo paese. Dobbiamo lavorare ancora». Poesia e medicina non hanno finito il loro compito. «I medici hanno incrociato i poeti – dice Gianni Tognoni – e assieme, con un po’ di risorse economiche, hanno affrontato e trasformato una realtà come quella dei tumori».
Sto un po’ con Lenin. Provo a scattare una foto. Non mi riesce. Preferisco stare lì a guardarlo mentre va sull’altalena. In un patio un bambino senza una gamba non distoglie lo sguardo da una televisione. Altri bambini con le teste calve dondolano sulle sedie, incerti tra la malinconia e il sorriso. Nella sala dei giochi, un bimbo col cappello di lana gioca come potrebbe fare qualsiasi altro. È arrivato tardi a Managua. Il cancro gli ha fatto esplodere il femore. Non ci saranno gli anni della gioventù per lui.
Apprendo di Tony Josè, 6 anni: viene da Rio Blanco, un paesino delle montagne. La sua poesia dice: «Avevo un tumore al petto… quando ho iniziato a stare male… mangiare non mi piaceva più… mia mamma Nubia ha visto che avevo il petto gonfio…». È passato un anno da quando ha cominciato i viaggi a La Mascota: «Il mio dottore dice che ormai sto bene».
Guardo i grandi disegni sulle pareti: ci sono un sacco di leoni. Strano che in Nicaragua ci siano molti animali magnifici, ma nessun leone. So che sta per arrivare un clown: è el doctor que-lo-cura. Straordinario gioco di parole: locura sta per pazzia in spagnolo. C’è attesa fremente di allegria tra i letti. Poeti, clown, musicisti, scrittori per un braccio di ferro con il tumore. Le parole e la malattia.