Un airone sopra il fiume
Da quando la ragazza era tornata, Celeste si sentiva come al fondo d’un pozzo, era imbottigliata, prigioniera di un mondo che aveva chiuso a lucchetto, dimenticato e perso, tra le cose che mai, mai, mai, dovrebbero ricominciare.
Il salotto era buio e sgombro, le tende tirate, Celeste le aveva scelte doppie, la luce era per i deboli di cuore. Alle pareti scaffali vuoti, le sedie contro il muro, i tappeti assenti.
La ragazza, venticinque anni, vestito fiorato, le aveva indicato un punto del legno a terra: «Si sta alzando», e Celeste ci era salita sopra con le ciabatte e aveva risposto: «Sarà solo un’infiltrazione, un colpo e si rimette a posto». Gli aveva assestato un calcio, ma si era fatta male, il legno era gonfio, una volontà pulsava e premeva per uscire, sbocciare alla luce. «Cosa accidenti è?».
Celeste si era accanita, con le palpebre semichiuse in quella sua espressione da corteccia, aveva iniziato a saltarci sopra, la ragazza la osservava e diceva: «Deve esserci qualcosa lì sotto».
Celeste si sedette a terra e con le mani aperte, come a dar gli schiaffi, prese a ceffoni il pavimento, non sopportava i cambiamenti in quel suo mondo dipinto a tinte fosche, tutto doveva seguire la sua sottrazione, il suo esilio.
La ragazza si avvicinò, i suoi occhi lucidi e teneri erano come quelli delle rane prima di venire fritte in padella, «forse conviene vedere se vuole spuntare». Celeste la fece alzare di peso strattonandola per il braccio «qua non c’è niente» ripeteva d’ossesso, «vai a dormire, chiuditi a chiave, non farti vedere da me» la allontanò, a spinte la costrinse a uscire, quella si lamentava.
La ragazza salì le scale a piedi nudi, le sue dita sdutte passavano sul corrimano suonando armonie di fantasia, le caviglie sottili allungavano i polpacci tanto elastici da fare toc, sembrava correre sui tacchi a spillo per andare a una festa.
Celeste si coricò, feto svenuto, ripeteva a se stessa che in salotto era tutto tranquillo, la ragazza era solo di passaggio, il sole del giorno venturo l’avrebbe rassicurata. Una mattina qualunque, come al solito patatine fritte a colazione e poi pulire la cucina, fornelli, pianali, cappa per il fumo, piastrelle, mestoli, frigorifero, sale olio e pepe, scongelare le salsicce per pranzo, carne marrone nel lavandino.
Nulla l’avrebbe scalfita, né la ragazza né quel pavimento sul punto di rompersi. Cosa sarà mai, poi avrebbe detto di intervenire a Oscar, quello che le passava il cibo dalla gattaiola, quello mandato dal governo per compassione insieme all’assegno mensile. Ecco, Oscar avrebbe risolto il problema. Celeste era compiaciuta, tutto aveva l’odore del grasso che sfrigola in padella, tutto poteva tornare a essere immobile.
Ma mentre teneva gli occhi aperti, senza sonno, sentì la ragazza correre giù a perdifiato, «c’è qualcosa» aveva gridato, e Celeste suo malgrado si era alzata imprecando, l’avrebbe lessata in acqua bollente quella ragazza che si scapicollava per casa.
La donna era scesa, zoppa di angoscia, la luce della lampadina sul soffitto, tremula e distorta, illuminava il pavimento, il legno era saltato, tappo di champagne, pop, al suo posto una nodosa radice si contorceva, si era fatta beffe del cemento.
«Guardala, è viva» la ragazza era felice, d’orizzonte infinito e acqua fresca all’ombra, erba sotto i piedi, i pomeriggi assolati di letture, quei libri in grembo come figli, i quaderni pieni di scarabocchi, sarò grande e diventerò un’eroina da fiaba, salverò popoli dalle tempeste, sarò una radice caparbia, un airone sopra il fiume.
Celeste la vide e svenne.
…
Il racconto completo è pubblicato nel numero di luglio-agosto del Messaggero di sant’Antonio, e nella sua versione digitale.