Un cuore che arde. XXXII Giornata dei Missionari martiri
Il 24 marzo si celebra ogni anno in tutto il mondo la Giornata dei Missionari martiri. Quest’anno, la XXXII edizione cade in concomitanza con la Domenica delle Palme e per tale motivo le celebrazioni si sono svolte o si svolgeranno nei giorni immediatamente precedenti o successivi alla data del 24.
Ma perché è stato scelto proprio questo giorno per ricordare tutti i missionari e le missionarie uccisi nel compimento della loro opera di diffusione del Vangelo? Il 24 marzo 1980 a El Salvador, fu assassinato sull’altare, durante la Messa, l’arcivescovo di San Salvador Oscar Arnulfo Romero. A ucciderlo i cosiddetti «squadroni della morte» che volevano in tal modo fermare la sua lotta per i poveri e gli emarginati. «La sua figura – ha detto Giovanni Rocca, segretario nazionale giovani di Fondazione Missio, realtà che nel 1992 propose l’istituzione della Giornata –continua, anno dopo anno, a incarnare il simbolo della vicinanza agli ultimi e l’incessante dedizione alla causa del Vangelo. Il suo impegno accanto al popolo salvadoregno, in lotta contro un regime elitario indifferente alle condizioni dei più deboli e dei lavoratori, continua a parlare ai giovani e non solo, richiamando alla necessità di una vita cristiana attenta alla preghiera tanto quanto alla cura della sorella e del fratello». Quella del 24, dunque, è una data simbolica, che sottolinea «la fedeltà al Vangelo dimostrata da coloro che hanno sacrificato la propria esistenza nell’annuncio della Buona Novella, in condizioni spesso ostili e ingiuste, proprio come Romero».
«In quest’occasione – si legge ancora –, la comunità è invitata a commemorare non solo i missionari caduti, ma anche a riflettere sul significato del loro sacrificio. Il loro esempio ci spinge a un impegno rinnovato nell’assistenza ai più bisognosi e nel combattere le ingiustizie sociali, ricordandoci che anche nei luoghi più remoti e dimenticati, il messaggio di speranza del Vangelo resta vitale e trasformativo».
Questa XXXII edizione, invita a riflettere attorno al tema «Un cuore che arde», con un chiaro riferimento al brano dei discepoli di Emmaus che ha guidato il cammino della Chiesa durante il mese missionario. Questo tema «richiama la forza della testimonianza dei martiri che, come Gesù attraverso la condivisione della Parola e il pane spezzato, con il loro sacrificio accendono una luce e riscaldano i cuori di intere comunità cristiane, ispirando una nuova conversione, dedizione al prossimo e al bene comune».
«La parola “Martire” – si legge nei sussidi preparati per la Giornata – nella lingua greca che ci ha regalato questa parola, significa “testimone”: in un tribunale, in piazza, con parole, con gesti, con la presenza… Nel linguaggio dei cristiani, però, è “testimone/martire” una persona capace di mostrare quanto sia centrale il suo rapporto con Gesù, al punto da preferirlo addirittura alla propria vita». A modello viene indicata la figura di santo Stefano, su cui l’evangelista Luca, negli Atti degli Apostoli, ci offre molte informazioni. «Stefano testimonia la possibilità di essere accompagnati e non soli anche quando ci si avvicina alla morte, magari la centralità del rapporto con il Signore Gesù, certamente la profondità e serietà con cui aveva vissuto la fede. Ma, soprattutto, mostra che si può vivere come Gesù, che quella del Signore non era una vicenda unica e irripetibile. Come Gesù, Stefano vive la propria fede come rapporto personale e intimo con Dio, mette a frutto la propria esperienza e competenza per far intuire anche a chi ha intorno che la religione non può essere semplicemente preghiere o riti ma un coinvolgimento diretto e profondo con chi ci ama. Stefano non ha paura di parlare, di spiegare, anche con schietta durezza se serve. Ma, insieme, non si fa violento contro chi lo lapida, non insulta, non recrimina. Fissa lo sguardo in Gesù, riconoscendo in lui una guida che già aveva subito ciò che sta vivendo lui. E, forte della vicinanza del Padre, rimane in quell’amore sempre, senza cercare vendetta, senza lamentarsi dell’ingiustizia, con uno sguardo tenero e limpido. Stefano, in realtà, non ha cercato la morte. Quella in qualche modo garantisce che il suo impegno non fosse finto o parziale. Ciò che ha cercato è una vita in rapporto con Gesù, nel dialogo e attenzione agli altri, senza durezza né ripicche. Incarnando nelle proprie scelte, parole e gesti l’amore del Padre. Chiunque vive in questo modo, si fa testimone/martire accanto e con Stefano. E Gesù». Per questo, come ha ricordato papa Francesco nell’udienza generale del 19 aprile 2023 «I martiri non vanno visti come “eroi” che hanno agito individualmente, come fiori spuntati in un deserto, ma come frutti maturi ed eccellenti della vigna del Signore, che è la Chiesa».
Nel 2023, secondo l’Agenzia Fides, i martiri uccisi in tutto il mondo sono stati 20: 1 vescovo, 8 sacerdoti, 2 religiosi non sacerdoti, 1 seminarista, 1 novizio e 7 tra laici e laiche.
Abbiamo chiesto a padre Giulio Albanese, missionario comboniano, di aiutarci a entrare più in profondità nello spirito di questa Giornata.
Msa. Padre Giulio, il 24 marzo, memoria di sant'Oscar Romero, celebriamo la XXXII Giornata dei missionari martiri. Qual è il senso di questa celebrazione?
Albanese. Fare memoria di quegli uomini e quelle donne, sentinelle del mattino, che hanno dato la vita per la causa del Regno. Si tratta di un valore aggiunto per la società civile italiana, non solo per la Chiesa.
In che senso?
Perché il loro è stato un servizio, una diaconia, per il bene comune, per annunciare i valori del Regno che sono pace, giustizia, solidarietà, bene comune e lo hanno fatto all’insegna della gratuità e per questo credo che sia importante ricordarli, anche perché costituiscono uno straordinario esempio per le future generazioni.
Quest'anno il tema scelto è «Un cuore che arde», con chiaro riferimento al brano dei discepoli di Emmaus. Perché è stato scelto proprio questo passaggio delle Scritture?
Perché il martirio, come l’eucaristia, è uno spezzare il pane. Da lì scaturisce quell’energia, quella forza che consente a queste sentinelle del mattino di essere segni di contraddizione in un mondo che ha fame e sete di Dio. La parresia, il coraggio di osare si concretizza proprio in quell’esperienza che è la stessa a cui hanno partecipato i discepoli di Emmaus, quando il giorno di Pasqua insieme a Cristo hanno spezzato il pane.
La missionarietà è una vocazione che riguarda ciascuno di noi. Perché missionario è tutto il popolo di Dio... Che cosa significa questo concretamente, per la ns vita di ogni giorno?
Che la nostra non è una fede incentrata sul dovere. Siamo credenti per vocazione e quando uno fa l’esperienza di nostro Signore Gesù Cristo ha il dirito e il dovere di annunciare e testimoniare la buona notizia. Questo esige un’assunzione di responsabilità da parte di tutti. La tentazione sempre in agguato è quella della delega: pensare che il proprio battesimo e le proprie responsabilità debbano essere affidati a quelli che potremmo definire i «professionisti di Dio», religiose, religiosi, sacerdoti. Invece ognuno di noi deve coltivare questa dimensione missionaria che, non dimentichiamolo, è senza confini, perché è cattolica, universale. Il nostro non può essere concepito come un cristianesimo fatto di merletti e candelabri ma un cristianesimo che ci porta a comprendere che siamo tutti fratelli, tutti sulla stessa barca. Nessuno si salva da solo come dice papa Francesco: è l’universalità della salvezza.