Una fecondità creativa
«Cari Edoardo e Chiara, sono Valentina e sono un’insegnante. Nel 2003 ho incontrato l’uomo della mia vita. Avevo 38 anni e un forte desiderio di maternità. Purtroppo questa gravidanza tardava ad arrivare e così, su consiglio del ginecologo, ho effettuato una terapia di stimolazione ovarica. Finalmente nel 2005 la tanto attesa gravidanza è arrivata, ma dopo qualche mese si è visto che l’embrione si era sviluppato dentro la tuba e quindi hanno dovuto chiuderla.
E così, con tanta sofferenza e scoraggiata, ho continuato con la stimolazione, finché nel 2007 rimango incinta. Ciò non mi sembrava vero. Ma nel momento in cui mi sono recata a fare l’amniocentesi mi è cascato il mondo addosso. Si è visto che l’embrione era affetto da sindrome di down. Successivamente, da una ulteriore ecografia, è risultato che l’embrione aveva liquidi nel fegato e nei polmoni e mi hanno consigliato di abortire, perché sarebbe morto alla nascita o vissuto per poco tempo. Dopo tanti dubbi e fatica abbiamo deciso di abortire.
Comunque ho cercato di reagire, e così dopo un anno, senza fare più stimolazioni, rimango incinta. Passa qualche mese e si rivela un’altra gravidanza tubarica. A quel punto inizia per me una terapia farmacologica e psicologica per superare il trauma. In un secondo tempo cominciamo a pensare all’adozione e così intraprendiamo questo percorso e dopo tre anni di attesa ci chiamano per un bambino di 9 anni e noi non ce la sentiamo di affrontare la situazione. Al rinnovo della domanda ci prospettano che ci potevano capitare situazioni difficili di bambini in età avanzata, e così non abbiamo avuto più la forza di affrontare questo percorso.
Adesso, dopo otto anni di terapia va meglio. Comunque mi è rimasto quel trauma, quel senso di colpa che, essendo credente, non mi abbandona. Premetto che mi sono confessata più volte. Rimane la mancanza di un figlio che cerco di colmare dedicandomi anima e corpo al lavoro e considerando i miei alunni come miei figli».
Valentina
Cara Valentina (abbiamo preferito utilizzare un nome di fantasia), grazie per averci raccontato la tua esperienza: ci tenevamo molto a risponderti in questa rubrica, perché sappiamo che molte coppie hanno vissuto esperienze simili alla tua. Il desiderio di un figlio, le gravidanze tubariche, il dramma dell’aborto, la paura per l’adozione, l’amara constatazione di non poter essere madre o padre: quello che tu e tuo marito avete vissuto è estremamente doloroso e difficile. Per tale motivo proveremo a risponderti con tutta la delicatezza che merita il vostro dolore, ma anche cercando di dare una nuova prospettiva, magari utile anche a chi legge.
Tutti noi abbiamo in mente un film sulla nostra vita, su come dovrebbe essere, e proiettiamo noi stessi in scenari futuri non ancora realizzati. Poi, come a voi due, capita che la realtà ci cada addosso. Nel vostro caso un figlio che non può arrivare, in altre situazioni la perdita del lavoro, una malattia grave, la morte di un figlio o, più semplicemente (ma si fa per dire), un partner che non ci corrisponde o non ci ama come vorremmo.
La realtà è un pugno nello stomaco a un pensiero delirante che abita in ciascuno di noi – compreso chi scrive –: che la vita seguirà i nostri desideri, soddisferà i nostri legittimi bisogni e che, se così non avviene, allora la vita è cattiva con noi, c’è qualcosa che non funziona, c’è un’ingiustizia.
Di fatto, spesso inconsapevolmente, accampiamo tutta una serie di diritti nei confronti della vita, mettendo il nostro «io» al centro dell’universo, aspettandoci che tutto, come diceva la famosa pubblicità, ruoti attorno a noi. La dolorosa fatica che siamo chiamati a fare è comprendere che non siamo noi a dettare l’agenda alla realtà, che quello che ci è chiesto è, spesso, di imparare a subirla (o, meglio, ad accoglierla) nel miglior modo possibile. Comprendere che un figlio, così come la salute, la condizione economica, le persone o altro ancora, non esistono per servirci, per corrisponderci e che se questo succede è un dono gratuito e immeritato.
Quando ci opponiamo a tutto ciò, il risultato è uguale a quello che otterremmo cercando di spostare casa nostra spingendola con le nostre mani: tanta fatica e nessun risultato.
Quello che ci è chiesto è di imparare ad abitare la realtà per quella che è, godendo il godibile che in essa è presente. Le ultime righe parlano della tua fatica a perdonarti l’aborto, che da Dio Padre, in confessione, è già stato perdonato. Valentina, questo è un vero e proprio percorso di guarigione che ha bisogno di qualcuno che ti sappia accompagnare. Se ti rivolgi al Centro di Aiuto alla Vita a te più vicino o alla sede del Movimento per la Vita forse ti sapranno indicare dove poter trovare percorsi di guarigione per il trauma dell’aborto. Io conosco e applico quello che ha creato la dottoressa Benedetta Foà; ma conosco anche l’esperienza proposta dalla Vigna di Rachele (trovi tutte le informazioni in internet).
Per concludere, auguriamo alla vostra coppia di saper scoprire la fecondità che già esiste nella vostra unione e nel sacramento del matrimonio che vi unisce. C’è un modo di portare frutto che solo voi, vivendovi in pienezza come singoli e come sposi, potrete regalare al mondo e alle persone che vi circondano.
Buon cammino.
Edoardo e Chiara
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