Per una pace disarmata
«Da quell’abisso di silenzio, ancora oggi si continua ad ascoltare il forte grido di coloro che non sono più». Sono le parole commosse pronunciate dal Papa al Memoriale della Pace di Hiroshima, il 24 novembre 2019, in occasione del viaggio apostolico in Thailandia e in Giappone. Non potrà mai essere l’uso delle armi, ha ricordato Francesco, a garantire la cura del mondo, la sua pace. È la fraternità la via della pace.
Ho ancora vive le immagini del Papa a Nagasaki, nell’Atomic bomb Hypocenter Park, sotto la pioggia, con la candela che non si spegne tra le mani. Avvolto dal silenzio, il Papa prega per le vittime innocenti e perché abbia fine questa terza guerra mondiale a pezzi. «Come possiamo – ha detto – proporre la pace se usiamo continuamente l’intimidazione bellica nucleare come ricorso legittimo per la risoluzione dei conflitti? Che questo abisso di dolore richiami i limiti che non si dovrebbero mai oltrepassare. La vera pace può essere solo una pace disarmata».
Iniziamo il 2020 con nel cuore questa esortazione: mai oltrepassare il confine della disumanità e spingerci dove c’è la morte! Tutti dobbiamo essere «costruttori di pace» (cfr Mt 5,9). La piaga dell’uso dell’energia atomica per fini di guerra «è immorale», ha ribadito il Papa, perché ogni tipo di arma è contraria all’uomo, alla sua natura. Fare la guerra è dire sì al male e alle sue conseguenze di orrore mortale. La pace è il vero volto del futuro e dell’uomo stesso. Alla radice di ogni guerra c’è la paura di non essere i migliori, i più sazi, i più potenti, che si traduce in odio, violenza, indifferenza.
La pace, invece, esige l’attuazione dei tre imperativi morali che il Papa ha voluto lanciare da Hiroshima: ricordare, camminare insieme, proteggere. Il primo ci educa alla pace, imparando dalla storia, a dire cioè «mai più la guerra», le stragi, gli stermini. È un forte invito a purificare la memoria del nostro cuore per essere nuovi noi, far nuovo il mondo e far cadere i muri innalzati per dividere. Come quelli che nelle fraternità religiose si elevano per invidie e che possono cadere per intervento della grazia divina. L’ho constatato al termine di un corso di esercizi spirituali: un fratello, che aveva calunniato pesantemente il suo superiore, gli ha chiesto perdono.
Il secondo verbo è la società dal volto solidale, perché tutti abbiano pane e dignità. Qui opera la grazia divina quando il nostro cuore sa accogliere e valorizzare i migranti. Come mi è capitato di vedere in una squadra di pallone, in un piccolo paese molisano, dove alcuni migranti si sono inseriti con tale bravura da esserne campioni. Sono diventati parte del paese, amati da tutti. Ma uno di loro, scaduto il permesso umanitario, si è visto rinchiudere in un «lager» in attesa di essere rimpatriato. Il paese è insorto. È una pace che si fa solidarietà vera. Sarà la più bella vittoria del campionato, se quel ragazzo potrà rientrare.
Il terzo è l’opera di pace più alta: proteggere. Significa lottare per una civiltà dell’amore, delle mani aperte che difendono e soccorrono, che spezzano le catene di ogni forma di schiavitù e di povertà. E che hanno trovato spazio, anche in un simpatico evento, in una parrocchia rurale. All’arrivo del nuovo parroco, ecco esplodere tensioni e rancori. Sembrava che tutto potesse andare in frantumi. Ma un incontro chiarificatore si è fatto protezione chiara e mite e il nuovo parroco è stato accolto con fraternità e gioia.
Realizzare passi di pace è possibile. Significa credere che si può vincere il male con il bene. Perché la pace non è solo assenza di guerra. È l’umanità che si riconosce fraterna. Venga allora la pace in questo nostro mondo. Una pace «disarmata», soprattutto nei cuori!