31 Agosto 2017

Concelebrazione solenne

Quando celebro la Messa, le persone anziane «celebrano» con me, ripetendo a memoria tutti i passi, anche quelli del sacerdote. E così facendo mi ricordano l’importanza dell’essere insieme Chiesa, corpo di Cristo.
vignetta concelebrazione solenne

©JeSuisLAutre/ArchivioMsa

Generalmente mi prendo tutte le libertà che il messale e la liturgia mi concedono quando celebro la s. Messa, un po’ per vincere la mia pigrizia e un po’ anche per rendere la faccenda più partecipata e attualizzata. In un solo caso seguo pedissequamente ciò che sta scritto, senza deviare né a sinistra né a destra, e soprattutto tenendo a freno il folletto anarchico che vive in me. Lo faccio né costretto né per qualche ordine di scuderia. È che mi sembra che così vada fatto, ogni volta che mi tocca condividere la s. Messa con gli anziani. Cosa che, ironia del caso (o, forse, per qualche legge del contrappasso liturgico-spirituale?), mi succede spesso.

Non salto neanche un «amen», nemmeno quelli facoltativi, e prendo fiato solo alle virgole previste. Faccio così da quando mi sono reso conto che essi, i simpatici vecchietti e vecchiette, di fatto «concelebrano» con me, assieme a me, e con un accordo pressoché perfetto. Insomma, sanno, e meglio di me, la Messa a memoria: e va beh le parti che da rito toccherebbero loro, ma eziandio anche le mie, quelle proprie del celebrante!

Qualche monsignore si scandalizzerà pure, ma non si arrestano nemmeno davanti alla preghiera eucaristica, concelebrando anche alla recita della formula per la consacrazione del pane e del vino. Anzi, se possibile ci mettono persino più entusiasmo. È come se dopo anni forzati di latinorum per lo più incomprensibile, una volta passati all’italiano, essi si siano voluti appropriare finalmente delle parole della Messa, senza alcuna intenzione ormai di mollarle per nessun motivo. Le conoscono a menadito, potrebbero recitarle anche a occhi chiusi. Mentre a me gli occhi ogni volta si inumidiscono, pensando a quanta fede c’è in loro, per il resto magari ormai relitti, per giunta costosi almeno per il sistema sanitario, di questa nostra società dell’efficienza e dell’apparenza.

È vero che probabilmente non capiscono del tutto ciò che vanno ripetendo a memoria (perché, io lo capisco?), magari farfugliando o biascicando (perché, le mie frasi ben pronunciate ma con la testa altrove, valgono forse di più?). È vero, ne convengo, che la liturgia, nella sapienza dei suoi riti, nelle parti suddivise tra celebrante e assemblea, ha tutta una sua ragion d’essere. Eppure, il loro senso di appartenenza a ciò che stanno vivendo, la loro voglia di esserci come protagonisti attivi, di fare coro, di sentirsi coinvolti in ciò che, credono, li riguarda molto da vicino, è del tutto invidiabile. A loro modo, e certamente maldestramente, reclamano il diritto sacrosanto a che quella sia anche parola «loro», almeno nel senso di «per loro».

In tempi di grande solitudine, non è anche questo uno stratagemma per stare un po’ in compagnia dei nostri simili e di Dio? Siamo probabilmente il pezzo di umanità più rumoroso e interconnesso che sia mai esistito sulla Terra, ma sentiamo di far parte davvero di qualcosa? Non fa sempre troppo freddo attorno a noi, dimostrando che anche Eraclito, oltre che le previsioni del tempo interiore, a volte si sbaglia? La situazione, la nostra personale, quella che ci assedia ogni giorno da vicino o da lontano, non ammette oramai più meri osservatori di lotte altrui. E i nostri poveri vecchietti non ci insegnano nuovamente il bello della compagnia? Non ci restituiscono il nostro diritto a essere «noi», uomini e donne, fratelli e sorelle prima di tutto il resto? Che ancor prima che un diritto è altresì un bisogno del tutto umano nonché una responsabilità evangelica: «Siamo bruschi, freddi, soli / come le gocciole. Ma uniti, caldi / enormi come la pioggia» (Franco Matacotta). Buon autunno a tutti! Soprattutto ai nonni e alle nonne.

Data di aggiornamento: 31 Agosto 2017
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