Un aereo, in Etiopia
Da trent’anni volo verso l’Africa con Ethiopian Airlines. Decine e decine di voli notturni da Roma verso Addis Abeba. Ricordo sempre con emozione l’alba nei cieli dell’Etiopia. Volerò ancora verso quelle terre. In Etiopia ho conosciuto Paolo Dieci, una delle vittime dell’aereo caduto la mattina del 10 di marzo. Paolo era un lavoratore della cooperazione. Aveva fondato, assieme ad altri il Cisp, una delle prime organizzazioni non governative italiane.
Ho addosso una sensazione che non so raccontare: ho rivissuto ogni momento prima di quel volo maledetto. Perché io conosco l’aeroporto di Addis Abeba e conosco, senza conoscerle, ognuna delle persone che erano a bordo di quell’aereo. Posso dirvi di cosa hanno parlato assieme prima di imbarcarsi. Posso dirvi del loro lavoro, del loro impegno, dei loro desideri. Posso dirvi, senza averle mai viste, di Virginia e di Maria Pilar, ragazze del World Food Program: hanno la stessa forza che ha mia figlia. Lo stesso entusiasmo. Prendono gli stessi aerei verso l’Africa. Conosco i settanta e più anni di Carlo e Gabriella e del loro amico Matteo: andavano in Sud Sudan (in Sud Sudan!) perché credono nel futuro, nella speranza. Nell’umanità.
Grazie a Martino Ghielmi, fondatore di Vado in Africa, ora conosco anche i nomi degli «stranieri» che erano a bordo di quel volo. Da giornalista so che se su quell’aereo non ci fossero stati italiani, la notizia sarebbe scivolata via nell’indifferenza. E non avrei saputo niente di Maria Musyoki, kenyana, che sviluppava tecnologie per il no-profit; non avrei saputo di Karim Saafi, tunisino, che si occupava di giovani imprenditori africani migrati in Europa; non avrei mai visto il sorriso di Shikha, indiana, consulente delle Nazioni Unite per l’ambiente. Quell’aereo era il mondo. Uomini e donne di trentacinque paesi volavano assieme. Molti di loro erano in prima fila nelle battaglie contro la povertà, per l’ambiente, per la giustizia, per la bellezza. Immaginateli: un israeliano accanto a marocchino, uno statunitense seduto vicino a un yemenita, la ragazza italiana che parla in swahili con una kenyana, uno slovacco e un russo che si augurano buon viaggio. Questo è il mondo. Il mondo che ci è attorno, basta volerlo vedere. Le tragedie, ingiuste, feroci, spesso colpevoli, ci rivelano quelle che non vogliamo guardare: che il mondo è già cambiato. Nessuno, su quell’aereo, si sentiva fuori posto. Si vive e si muore assieme. È un mondo meticcio, capace di incrociare pelle e lingue, religioni e storie diverse. Possibile che ce ne accorgiamo solo se cade un aereo internazionale e non quando camminiamo nelle nostre città?
Trovo insopportabile (e indecente) che «Il Giornale» e altri giornali abbiano titolato Strage della bontà. Gli uomini e le donne saliti su quell’aereo non erano buoni, stavano facendo il loro lavoro. Erano persone normali che credevano nella possibilità di un mondo migliore, più giusto, più saggio. Erano persone tenaci, capaci di lavorare per gli altri.
Leggo uno dei messaggi di Paolo Dieci, scritto dopo lo sgombero dei migranti da Castelnuovo di Porto, una delle pagine nere di un governo nero: «Dolore assoluto. Assieme ai migranti sta morendo la nostra società. Reagiamo con la forza della ragione e con umanità prima che sia troppo tardi». Lo immagino mentre sta scrivendo queste parole. Ripetetele ad alta voce, che vi senta chi vi sta vicino: «Assieme ai migranti sta morendo la nostra società».
Ripetetelo mentre state salendo su un nuovo aereo. Perché gli uomini e le donne continueranno a volare, a camminare, a lavorare in un ufficio o in campo perché il mondo sia migliore.