23 Febbraio 2019

Beato chi occupa poco spazio per vivere

Sul KorKor Maryam, la montagna di Maria, nel Nord dell’Etiopia. In compagnia di una monaca, vedova, povera, rannicchiata dentro sé stessa. Non sono riuscito a diventare piccolo come lei.

Monaca in Etiopia

Pensavo di raccontarvi, con una immagine, una mia piccola, personale impresa. A dicembre, dopo venticinque anni, ero salito nuovamente sul pianoro di alta quota di KorKor Maryam, la montagna di Maria, in vetta all’amba Gheralta, nel cuore del Tigray etiopico, Nord del paese. Non è gran cosa: ma io soffro di vertigini e salire lassù, arrampicandomi per passaggi rocciosi esposti, è stato atto di incoscienza e orgoglio. Non ci sarei mai riuscito se un ragazzino non mi avesse tenuto per mano e non mi avesse protetto dal vuoto. Dalla sensazione del vuoto. Pensavo di mettere una foto che mostrasse la meraviglia di quel confine sacro tra roccia e cielo.

Ma poi ho incontrato una donna. Una monaca. Conosco queste terre ortodosse, dovrei esserci abituato. Le monache, spesso vedove dei preti, indossano una ruvida tunica di color giallo sgargiante. Hanno una berretta con su cucita una croce. Sono vecchie, sole, ossute, raggrinzite. Aspettano. Vivono di elemosine e del poco cibo che rimediano dai contadini. Aspettano di morire. I loro occhi sono fessure, le loro mani si protendono quando si rendono conto che un bianco sta passando a poca distanza da loro. Si sforzano in una invocazione. Ho l’idea che abbiano sempre fame.

Quando sono arrivato in cima a KorKor Maryam, dopo essermi calmato, mi sono seduto a una distanza rassicurante dal precipizio. Non mi ero accorto della monaca, eppure era a un passo da me. In pieno sole. Ha mugolato qualcosa, mi guardava schermandosi gli occhi con una mano. Io non riuscivo a staccare il mio sguardo da lei. Era rannicchiata dentro sé stessa. Le gambe raccolte al petto. I piedi nudi. Le mani da scheletro, il naso aguzzo. A chi poteva chiedere elemosina, se solo i preti vivono nella solitudine aerea di KorKor Maryam? A noi turisti, immagino. Stava lì, la monaca. Occupava lo spazio dei miei piedi messi uno davanti all’altro. Ho pensato a quanto spazio occupo io. Ho pensato alle statistiche: un arabo del Qatar «consuma» tredici ettari di terra. Come un europeo del Lussemburgo. Ricchezza. Io, a dar retta ai numeri, consumo ben più di cinque ettari. Servono a qualcosa le statistiche? Cosa mi fanno capire? Mi immagino nella mia città mentre guido la macchina o vado in pizzeria: quanto spazio occupo? Ho fissato i centimetri quadrati dove era rannicchiato il corpo della monaca vestita di giallo. Mi ha chiesto denaro con insistenza, poi si è girata verso la meraviglia del vuoto. Per un’ora non si è mossa. Per un’ora non mi sono mosso. Ero appena dietro di lei. Non sono riuscito a diventare piccolo come lei. Occupavo sempre due, tre volte lo spazio che lei  riusciva ad abitare. Poi, inevitabile, me ne sono andato. Il ragazzino ha ripreso la mia mano e mi ha aiutato a scendere metro dopo metro da quel pianoro. Ho chiuso gli occhi per il tremore. Mi sono affidato al ragazzo. E a ogni passo incerto verso la pianura, mi riappariva la monaca. Non so chi abbia detto: «Beato chi occupa poco spazio per vivere». A valle, ad aspettarmi, un potente fuoristrada.

Non vi mostro la bellezza dell’amba Gheralta, né le architetture rupestri della chiesa di Maryam, ma il volto, tagliato dal sole, della monaca.

Data di aggiornamento: 07 Marzo 2019
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