Poveri, questione di dignità
Il perché Jorge Mario Bergoglio abbia scelto il nome di Francesco lo ha spiegato lui stesso, incalzato dalle domande: «Colpa» dell’amico cardinale Claudio Hummes. Nel conclave gli sedeva accanto, è stato tra i primi a complimentarsi, abbracciandolo: «Non dimenticarti dei poveri!» gli disse. «E quella parola – confida il Papa – è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. (…) È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato. (…) Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!».
E davvero Francesco in questa direzione ce la sta mettendo tutta! Da ultimo, si è inventato una nuova «giornata mondiale» ecclesiale dedicata ai poveri, fissata per la domenica di novembre (nel 2018 è il 18) che precede la solennità di Cristo Re. Così il Papa l’ha inaugurata nel messaggio dell’anno scorso, vero «testo programmatico» dell’iniziativa: «Ho voluto offrire alla Chiesa la Giornata mondiale dei poveri, perché in tutto il mondo le comunità cristiane diventino sempre più e meglio segno concreto della carità di Cristo per gli ultimi e i più bisognosi».
Per il nostro giornale e per tutti i suoi lettori, poi, c’è un motivo in più per vivere con partecipazione questa opportunità di preghiera, pensiero e azione: infatti il messaggio che il Santo Padre ha offerto per la Giornata è stato firmato da Francesco in un giorno particolare, il 13 giugno, «Memoria di Sant’Antonio di Padova» come riporta il documento vaticano. Una scelta non casuale quindi, ma anzi ben ponderata, a sottolineare il legame e la cura speciale riservata da Antonio agli ultimi, sia mentre era in vita, sia poi nei secoli, che fa del Santo il «patrono dei poveri», come confermato anche nella conferenza stampa di lancio dell’evento in Vaticano.
I paradossi italiani
Ma chi sono i poveri? La domanda non è scontata. Lo sottolinea anche il Papa: «Conosciamo la grande difficoltà che emerge nel mondo contemporaneo di poter identificare in maniera chiara la povertà», che si concretizza nei tanti «volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata».
E ancora: «Fa scandalo l’estendersi della povertà a grandi settori della società in tutto il mondo. Dinanzi a questo scenario, non si può restare inerti e tanto meno rassegnati. Alla povertà che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro; alla povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi; alla povertà che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce».
Il quadro delineato è mondiale, com’è giusto che sia. E in Italia? Chi e quanti sono i poveri di casa nostra? Per affrontare la questione senza semplicismi da bar sport, ecco alcuni paradossi che emergono dai dati disponibili. Gli ultimi, pubblicati dall’Istat e riguardanti il 2017, svelano che per la prima volta dopo decenni abbiamo «sfondato» quota 5 milioni di persone in povertà assoluta, ovvero, secondo i calcoli dell’Istituto statistico nazionale, persone che non possono contare su quella quota mensile ritenuta minima per poter acquistare i beni essenziali. Non è una cifra fissa di euro, perché dipende da diversi fattori (ad esempio la residenza, ma anche la dimensione, composizione ed età della famiglia). Quindi, primo paradosso: cresce (seppur di poco) il prodotto interno lordo e il reddito medio, ma crescono anche i poveri. Che poi, 5 milioni sono tanti o pochi? Davvero molti. Nel 2006 erano appena 1 milione 660 mila: l’aumento in pochi anni è del 204 per cento!
A sollevare un rilievo allarmante è poi la Banca d’Italia, che nell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2016 (uscita a marzo 2018) mette in guardia: se l’8,4 per cento della popolazione è in povertà assoluta, la quota di persone a rischio povertà è ben più alta, e si attesta al 22,9 per cento, oltre un italiano su cinque. Con delle distinzioni inattese, a seconda dell’età. Il rischio di povertà è più alto tra i giovani, rispetto agli anziani. Laddove il capofamiglia è un over 65 anni, tale rischio è «appena» del 15,7 per cento, ma sale al 30 se il capofamiglia ha meno di 45 anni! A commentare questo rilievo è Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan, tra i massimi esperti di welfare e lotta alla povertà: «La situazione più grave è proprio nelle generazioni giovani, che vedono azzerata la possibilità di migliorare il livello economico raggiunto dai genitori. L’arretramento è indice di una società che non dà speranza a se stessa e al futuro. Mettiamo in conto anche il debito differito che stiamo caricando sulle spalle degli under 45: su quale pensione un giovane dal lavoro precario potrà contare un domani?».
Più risorse, più poveri. Come è possibile?
L’assioma sembra lampante: ai poveri vengono destinate troppo poche risorse. Invece è questo probabilmente il paradosso principale, perché, dati alla mano, non è proprio così. Negli ultimi cinque anni, la spesa pubblica per assistenza sociale è aumentata del 21 per cento, superando i 60 miliardi, di cui il 90 per cento è impegnato in trasferimenti monetari, la restante parte in servizi. Ci si aspetta, quindi, che i tassi di povertà e di disuguaglianza siano calati, e invece no, è il contrario.
Come si spiega questo apparente assurdo? «È possibile se confondo il mezzo con la soluzione» esordisce il professor Vecchiato. «Aiutare la persona a uscire dalla situazione di povertà è l’obiettivo. Il trasferimento è solo il mezzo, ed è un mezzo inefficace, se non come misura di primo intervento, nell’emergenza della necessità di dare da mangiare, dormire, vestire… Le opere di misericordia corporale vanno garantite, ma alla lunga rispondere così crea un effetto collaterale perverso: l’assistenzialismo. Posso assistere bene, ma mantenendo la persona in povertà, cronicizzandola. Questa non è lotta alla povertà: è dipendenza assistenziale, utile solo a fini elettorali o di potere. Altrove in Europa, con più servizi e meno soldi dati in mano, le persone escono dalla povertà di lungo periodo. Da noi no. Un esempio? Se anziché erogare 800 euro a una famiglia con un bambino piccolo ne do 500 e 300 li metto nella retta del nido, so che il bimbo mangerà bene tutti i giorni, avrà amici che non avrebbe mai avuto, sarà attivato nelle sue capacità cognitive… Questa è lotta alla povertà».
Si capisce quindi il giudizio negativo dell’esperto (critico pure sulle precedenti misure: social card, Sia, Rei…) sul reddito di cittadinanza, per il quale il governo ipotizza di impegnare cifre importanti (8-10 miliardi), comunque non sufficienti per tutti i poveri di cui sopra (dare 780 euro al mese a 5 milioni di persone impegna quasi 47 miliardi l’anno). Soldi che in ogni caso in cassa non abbiamo, e che dovremmo farci prestare, producendo un ulteriore aggravio della disuguaglianza, come sottolinea su «Avvenire» Francesco Gesualdi: «Abbassare le tasse sui redditi alti e nel contempo finanziare le spese sociali a debito è un doppio regalo che si fa ai più ricchi. Il primo quando si lasciano nelle loro tasche più soldi. Il secondo quando si fanno crescere ulteriormente i loro portafogli a causa degli interessi riscossi sui prestiti che lo Stato ha dovuto chiedere in prestito per i mancati incassi dovuti alla riduzione delle tasse. Pretendere di eliminare la povertà mettendo sempre più soldi nelle tasche dei ricchi è una farsa». Tiziano Vecchiato rincara la dose: «Nel 2014 per la prima volta le imposte dirette, da reddito, sono state superate dalle indirette, da consumo. Può sembrare un arido rilievo statistico, invece è carico di conseguenze, perché le tasse da reddito sono progressive e riducono le disuguaglianze, mentre i prelievi sui consumi le amplificano. L’accisa applicata al pieno di benzina di una Ferrari e di una Panda è la stessa. È un’imposta uguale per disuguali».
Ma come si inverte la tendenza? Come aiutare davvero le persone in povertà? «Se il fine è ridare dignità alla persona, rimetterla in corsa, è necessario incontrarla – riflette Vecchiato –. Quella volta in cui Gesù dovette far fronte alla fame di 5 mila uomini, per tacere delle donne e dei bambini, dovrebbe insegnarci qualcosa. L’effetto moltiplicatore si è innescato grazie ai cinque pani e due pesci di uno di loro. Partire dall’incontro con la persona significa mettere in gioco le sue capacità, anche piccole, perché quel poco può diventare tanto. Non posso aiutarti senza di te: è questa la grammatica del welfare. L’unico modo dignitoso di incontrare l’altro è vedere la persona, non il bisognoso. Se un operatore sociale, della Caritas, della San Vincenzo, non accetta questo principio basico, gestisce un rapporto di potere, lo sbilanciamento tra chi aiuta e chi è aiutato. La tentazione di chi fa il bene è farlo male».
La Giornata mondiale dei poveri può aiutarci a ripartire dai fondamentali, rivoluzionari, dell’incontro con l’altro, consapevoli che, come insegna papa Francesco, «condividere con i poveri ci permette di comprendere il Vangelo nella sua verità più profonda. I poveri non sono un problema: sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo».
L’articolo completo è nel numero di novembre del Messaggero di sant’Antonio e nella corrispondente versione digitale.