Gregorio Rosa Chávez: «Il mio amico Romero»
Quando papa Francesco annunciò di volerlo nominare cardinale nel concistoro del 28 giugno 2017, la notizia creò un certo scalpore. Non solo, infatti, sarebbe stato il primo porporato nella storia della piccola e provata nazione centramericana, ma non era nemmeno vescovo titolare, bensì semplice ausiliare per quanto di una arcidiocesi importante come quella di San Salvador. In tale nomina tutti videro una sorta di riconoscimento postumo a colui che fu il suo «maestro», il vescovo martire Oscar Arnulfo Romero, che il prossimo 14 ottobre, insieme a papa Paolo VI, verrà canonizzato a San Pietro.Abbiamo incontrato il cardinale Rosa Chávez a Roma, in occasione del concistoro dello scorso giugno, ospiti della libreria Àncora. L’uomo dallo sguardo severo si è rivelato quasi subito una sorpresa per la dolcezza dell’eloquio, l’animo mite e la grande disponibilità.
Msa. Da quando è stato creato cardinale com’è cambiata la sua vita? Chávez. In apparenza poco. Vivo nella stessa parrocchia (è ancora parroco della chiesa di San Francisco a San Salvador, ndr), ogni mattina celebro la Messa, cammino per la città che è molto povera e violenta. Invece è molto cambiata quanto a numero di inviti, viaggi, responsabilità. Cerco comunque di vivere in maniera semplice e vicina ai poveri.
«La mia porpora è per Romero» ha spesso ripetuto. Perché ha sempre voluto legare così strettamente la sua nomina cardinalizia al vescovo martire del Salvador?Per due ragioni. Innanzitutto per la gente: il popolo del Salvador quando ha saputo della mia nomina ha pensato a Romero. Tutti. La seconda è più profonda ed è legata al cardinale Martini. Nel 1983, egli scrisse una lettera pastorale sul martirio, intitolata Martirio, eucaristia, dialogo, nella quale citava due cardinali che avevano segnato la sua vita. Ma aggiunse: «C’è una terza figura, quella del vescovo Oscar A. Romero. (…) Egli non fu cardinale per il titolo, ma per il porpora del sangue versato». Questa immagine mi colpì profondamente quando la lessi. Quindi io credo che Romero sia cardinale nel senso pieno del termine.
Chi era per lei Romero?Romero era un uomo molto preciso e scrupoloso, ogni sera registrava il diario della sua giornata. Quando è morto abbiamo trovato trenta audiocassette, che abbiamo sbobinato e pubblicato. Ne è uscito un diario che rende conto dei suoi ultimi due anni di vita, fino al 20 marzo 1980, quattro giorni prima della morte. In queste pagine Romero parla di me frequentemente. Ma c’è un passaggio che mi è particolarmente caro: in esso racconta di una sua riunione con l’équipe del seminario, di cui io ero all’epoca rettore, al termine della quale mi invitò a fare una passeggiata e poi a mangiare con lui. Conclude dicendo: «E dopo abbiamo scambiato le nostre esperienze, perché tra noi c’è un’amicizia tanto vera, tanto profonda e da tanto tempo». Dunque, chi era Romero per me? Un amico. Un’amicizia, la nostra, cominciata quando io ero seminarista, dopo gli studi di filosofia, e lui rettore del seminario e io ebbi l’opportunità di lavorare al suo fianco come assistente per un anno. Era il 1965 e da allora, fino al 1980, abbiamo camminato insieme.
Che uomo era Romero? Che pastore era? Che vescovo era?Per capire Romero bisogna leggere il suo diario ma anche i quaderni spirituali, le omelie, i testi dei suoi ritiri. Quando l’ho conosciuto, Romero era prete in una diocesi a oriente del Paese e in quel momento era molto popolare tra la gente più benestante, nonostante non fosse lontano dai poveri. Fino ad allora, però, non aveva scoperto la sua vocazione di «profeta della giustizia». Le cose cambiarono quando giunse nella capitale come arcivescovo e toccò con mano l’ingiustizia strutturale e profonda che teneva sotto scacco la popolazione. Così rilesse in maniera differente anche il messaggio delle due grandi conferenze dell’episcopato latinoamericano, quella di Medellín e quella di Puebla, nelle quali era emersa chiaramente l’opzione preferenziale per i poveri che la Chiesa non poteva esimersi dal compiere. Romero da allora in poi rimase solo e soffriva per questo, ma sapeva che la solitudine era il prezzo da pagare per restare accanto al popolo. In una pagina del suo diario, nel novembre 1979, scrive: «Le persone sanno che sono stato minacciato di morte, ma devo dire loro che mai abbandonerò il mio popolo. Sono pronto ad accettare i rischi di questa scelta e chiederò loro di pregare per me».
Papa Francesco e Romero si assomigliano per molti versi.Francesco e Romero hanno tante cose in comune. Per esempio, alcune immagini: l’odore delle pecore, la Chiesa in uscita, la Chiesa povera e per i poveri. Ma anche l’amore alla Vergine, l’attenzione al messaggio conciliare, l’apprezzamento per Paolo VI. Per papa Francesco Romero è una sorta di icona della Chiesa, è il vescovo che si fa pastore. Quando sono venuto a Roma per ringraziarlo, Francesco mi ha detto in modo spontaneo, alla fine del discorso ufficiale, che Romero è stato ammazzato due volte: il 24 marzo 1980 e quando è stato fatto oggetto di mormorazioni e calunnia.
Perché abbiamo dovuto attendere trentacinque anni per vedere riconosciuto il martirio di Romero?Perché è un martire scomodo. È un martire del Concilio. È un martire del magistero. Quando doveva difendersi dalle accuse che i suoi detrattori mandavano in Vaticano contro di lui, preparavamo i testi insieme. In una di quelle occasioni ricordo che disse: «Quando il Concilio si spiega in maniera teorica non c’è problema, quando si cerca di metterlo in pratica il problema arriva». Giovanni XXIII aveva voluto due vescovi dell’America Centrale nella commissione antepreparatoria del Concilio. Abbiamo potuto vivere il Concilio da vicino ed è per questo che poi abbiamo avuto la conferenza di Medellín, che in pratica è stata la ricezione del Concilio per l’America Latina. Siamo l’unico continente ad aver compiuto un passo di questa portata. La conseguenza di aver preso sul serio il Concilio è il martirio. Quando l’allora cardinale Ratzinger, prendendo in esame le accuse contro Romero, lesse le sue omelie, rimase colpito dall’ortodossia totale e dalla chiarezza del pensiero. Il problema del magistero di Romero non erano le affermazioni eretiche (che non c’erano), ma il fatto che fosse un magistero applicato alla realtà.
Da più parti si vorrebbe Romero «dottore della Chiesa latinoamericana». Perché?Romero aveva una capacità incredibile di improvvisare. Se si leggono i suoi diari e le sue omelie lo si coglie in modo chiaro: si appuntava alcune idee che poi sviluppava al momento della predicazione, in modo originale e innovativo. Per questo riteniamo che ci siano le condizioni per proclamarlo dottore della Chiesa: la santità e l’ortodossia, oltre all’originalità del pensiero.
Paolo VI e Romero verranno canonizzati insieme. Sono entrambi interpreti fedeli del Vaticano II e spesso sono stati accusati ingiustamente.Se dovessi descrivere in due parole Romero e Paolo VI, direi: Paolo VI è stato un profeta incompreso, Romero è il nostro santo. Tra loro il legame era profondo. Quando Romero fu chiamato a esprimersi sulla Teologia della liberazione, si fece guidare dall’esortazione di Paolo VI Evangelii nuntiandi e dal magistero del cardinale Eduardo Pironio. È bellissimo pensare che Paolo VI e Romero saranno canonizzati insieme. Romero è stato nominato arcivescovo di San Salvador da Paolo VI nel 1974. Alla vigilia dell’ingresso, venne in Vaticano e il Papa gli fece dono di un poco di denaro per la Diocesi e di un calice. Romero gli inviò poi una bellissima lettera per ringraziarlo, nella quale scriveva: «Questo calice è il segno della nostra comunione». Poi nel 1978 fu di nuovo con il Papa. Nel suo diario c’è una bella e lunga descrizione di questo incontro. In tale occasione gli disse: «Santità, lei ha scritto un messaggio sulla pace nel quale dice un chiaro no alla violenza. Questo documento è la mia guida». Tra i due c’era una sintonia totale. Maestro e discepolo.
La canonizzazione di Romero avverrà durante il sinodo sui giovani. A suo parere, che cos’ha da comunicare di specifico il nuovo santo ai giovani di oggi?Le rispondo con due cose che Romero scrisse dopo essere stato minacciato di morte. Aveva invitato un gruppo di giovani per una riunione che doveva tenersi a tarda sera, in un luogo distante. Gli dissero: «Monsignore non vada, lei non deve rischiare». E lui rispose: «Non posso deludere i giovani, devo andare». L’altro episodio riguarda un incontro con i seminaristi della sua diocesi, nel corso del quale raccontò la storia della sua vocazione. E dopo chiese anche a tutti i presenti di raccontare la propria storia. Alla fine commentò: «Non ci sono due storie uguali!» e invitò i seminaristi a condividere la storia della loro vocazione con altri giovani non in cammino verso il sacerdozio, «per una reciproca edificazione» scrisse. Quando poi, nel 2000, due vescovi di Pax Christi vennero sulla tomba di Romero per i 20 anni del martirio, restarono molto colpiti dall’enorme numero di giovani che prendevano parte alla fiaccolata che ogni anno, il 24 marzo, si tiene in sua memoria. Erano moltissimi e mentre camminavano pronunciavano ad alta voce una sorta di slogan: «Se siente, se siente, Romero está presente». Lo sentivano accanto, anche se nessuno di loro l’aveva conosciuto. Questa è la nostra realtà: sono sempre di più i giovani che cercano in Romero una guida, un’ispirazione, un intercessore. Ciò è possibile perché non hanno pregiudizi, non hanno la mente «avvelenata» come spesso accade a noi adulti e dunque colgono l’autenticità di Romero. I giovani sono la nostra speranza.
Per Romero, il primo miracolo canonicamente riconosciuto è stata la guarigione di una donna in pericolo di morte dopo il parto.Da noi ci sono tanti femminicidi e in generale la vita non vale niente. Siamo uno dei Paesi più violenti del mondo. Ecco perché questo miracolo è molto interessante, perché riguarda entrambi questi aspetti: la donna e la vita. È un miracolo emblematico. La donna miracolata sarà a San Pietro il 14 ottobre con la sua famiglia e con il bambino nel cui parto ha rischiato di morire. E tutta la famiglia si incamminerà verso il Papa.
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