Le drammatiche solitudini tra noi
«Gentile direttore, mi ha dato molto da pensare un fatto avvenuto nella mia città, Monselice (PD), qualche tempo fa. Una persona di 77 anni è stata rinvenuta, senza vita, nella sua abitazione proprio a due passi dal centro. La stampa ha parlato anche delle condizioni in cui avrebbe vissuto quest’uomo, senza gas, senza elettricità, senza acqua, in solitudine. Si constata, con grande amarezza, che nell’era della comunicazione globale, dove entriamo in contatto con amici oltreoceano, non riusciamo più a comunicare col vicino di casa o con membri della nostra stessa comunità. Mai come in quest’epoca, dove vi è abbondanza di centri di ascolto, di specialisti, di servizi dedicati, l’uomo sprofonda nelle sue solitudini. Secondo lei, come possono accadere fatti come questi? Le nostre perfette città stanno diventando deserti?». Antonio Stasolla
Episodi di cronaca come quello riportato non sono purtroppo isolati, ma lasciano sempre nello sconcerto: è giusto insomma che facciano notizia, che ci scuotano, che ci provochino l’interrogativo: «Come è stato possibile?». A onor del vero, perché non resti una domanda retorica utile magari solo per spargere intorno generici corrosivi pessimismi, il quesito successivo dovrebbe essere: «E io dov’ero? Che cosa avrei potuto fare per evitarlo?».
Non nego, infatti, che leggendo la condivisibile riflessione – tagliata per motivi di spazio – offerta dalla lettera sono «inciampato» su una parola, seppure secondaria nell’insieme. Si tratta di «specialisti». Sia chiaro: magari ce ne fossero di più e di migliori, magari fossero riconosciuti e sostenuti dall’intera comunità civile nel loro operato, certo sul piano dell’assistenza sociale, ma poi anche in tanti altri ambiti di vita.
Tuttavia, mi sento di auspicare – e di richiedere con forza! – il ritorno alla responsabilità dei «non specialisti», tra i quali – non mi tiro certo indietro – mi ci metto anche io. Non in sostituzione, ma in parallelo, meglio ancora in sinergia con chi già opera con i poveri e per erodere le drammatiche solitudini che popolano le nostre città. Non accetto, in questa fase, nemmeno la qualifica di «volontario»: vorrei proprio una mobilitazione personale, familiare e comunitaria di cittadini, di uomini e donne in quanto uomini e donne. Le appartenenze, tessere o divise verranno in un secondo momento.
Se tutto ciò lo portiamo poi sul piano cristiano, siamo fritti.Papa Francesco non lascia certo margini di fraintendimento né spazio alle nostre pigrizie quando, nell’Evangelii gaudium (187 e seguenti) ci richiama all’essenziale. «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo. È sufficiente scorrere le Scritture per scoprire come il Padre buono desidera ascoltare il grido dei poveri: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo ? Perciò va’! Io ti mando” (Es 3,7-8.10) (…). Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto, perché quel povero “griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te” (Dt 15,9). E la mancanza di solidarietà verso le sue necessità influisce direttamente sul nostro rapporto con Dio: “Se egli ti maledice nell’amarezza del cuore, il suo creatore ne esaudirà la preghiera” (Sir 4,6). Ritorna sempre la vecchia domanda: “Se uno ha ricchezze di questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17)».