Salvati dalla dolcezza
«Gesù fu dolce nel grembo, dolce nel presepio, dolce nel tempio, dolce in Egitto, dolce nel battesimo, dolce nel deserto, dolce nella parola, dolce nel miracolo, dolce in sella all’asinello, dolce nella flagellazione, dolce sulla croce, dolce nel sepolcro, dolce negli inferi, e infinitamente dolce sarà nella gloria del cielo». Sant’Antonio, Sermoni, Purificazione della Beata Vergine Maria
Tranquilli, parlando di «dolcezza» non intendo alzare i valori della glicemia, per qualcuno già messa a prova da disinvolti stili alimentari. Mi gira per la testa questa parola e mi chiedo se abbia a che fare con l’intimità privata di affetti e tenerezze o se debba essere riconosciuta una virtù sociale, un bene della comunicazione. Mi colpisce quando un uomo di Chiesa medievale come Antonio, per noi pregiudizialmente serioso e timorato di Dio, elogia questo atteggiamento spirituale esaltandolo in Dio stesso.
Sant’Antonio nella sua predicazione non sembra, a prima lettura, dolce. Egli incalza prelati corrotti e ricchi avari con l’indignazione con cui Gesù cacciava i venditori del tempio e rivoltava la coscienza di chi si credeva giusto davanti a Dio e migliore degli altri. Antonio non condona nulla di quanto dovuto a Dio e di quanto attiene alla condotta di vita cristiana; il suo non è mai uno sguardo meno che ruvido sul male: solo la Confessione integra, il dolore e il proposito di non ricadere nell’errore insieme con l’impegno di ripararlo, ottengono misericordia e remissione. Nessuna scorciatoia sentimentale. Tuttavia quando sant’Antonio parla di Gesù come «Favo di miele offerto al Padre» per l’opera dell’«Ape vergine» (Maria), sottolinea una qualità essenziale di Dio, una «competenza» tutta particolare che coinvolge l’anima e non solo le «buone maniere».
La dolcezza di Cristo che Antonio ci indica è una sana provocazione per renderci consapevoli di come viviamo ogni evento della nostra vita personale e di relazione. Perché se quello è stato ed è l’atteggiamento di Gesù – e siamo salvati proprio da questo –, non potrebbe/dovrebbe essere anche il nostro? Non è facile essere «dolci» senza essere melensi, compiacenti, quindi falsi; tuttavia la dolcezza è capace di provocare, di smuovere; ne seppero qualcosa i primi compagni di san Francesco quando egli li mandò a portare il saluto della pace a tutti, e furono presi per matti o quantomeno per sempliciotti perché non era ritenuta possibile una convivenza umana non aggressiva, senza confronti bellicosi, tra interessi da difendere e pretese da accampare.
Leggo su «Avvenire» un pezzo di Marina Corradi che descrive alcune ore passate in un Pronto soccorso: tanti volti che non si incrociano, che non condividono nulla, non si rispecchiano, fissi sullo schermo del cellulare o sul monitor delle prenotazioni. «Ci siamo persi qualcosa?» si chiede la giornalista. Uno sguardo compassionevole, una parola gentile, sono ancora possibili tra di noi? E quanta «dolcezza» sta attraversando ai nostri giorni ogni pubblico dibattito su temi scottanti, come le nuove e complesse convivenze interculturali, l’Europa che vogliamo, e tanti altri aspetti del bene comune?
Sembra vincere e convincere chi giustifica esattamente il contrario della dolcezza, spesso interpretata come buonismo privo di intelligenza. La dolcezza di Gesù Cristo è un «equivoco» che stiamo disinvoltamente superando o uno stile «divino» che dobbiamo ancora apprezzare? Dolcezza o paura? Francesco d’Assisi e Francesco di Roma hanno idee in proposito!