Natale, puzza di umanità
Dio, immenso e incommensurabile, che «i cieli e i cieli dei cieli non possono» contenere (1Re 8,27), si è «ristretto»: si è rimpicciolito fino a starci tutto in un piccolo bimbo!
Noi diciamo che il mistero dell’Incarnazione, e cioè Dio che in Gesù si fa veramente uomo, è il cuore della nostra fede: da qui, da questa mangiatoia, parte il percorso virtuoso che porterà alla nostra salvezza. Eppure, troppi Natali ci hanno forse assuefatti svogliatamente all’incredibilità di questo paradosso: sia, nel senso letterale, che è difficile da credere, sia che oramai fatichiamo a lasciarci facilmente sconvolgere da questo avvenimento.
Che corde della nostra vita fa dappiù vibrare l’idea che Dio abbia scelto – chissà? forse proprio per essere ancora più Dio di prima? – di concedersi una parentesi tutta umana? Non ha forse in questo modo inaugurato un nuovo tratto autostradale per la nostra vita di fede? Una «variante di valico» che arriva in paradiso, sì, ma passando obbligatoriamente per la terra?
Che Dio si sia fatto uomo certo ha a che fare con la componente corporea della nostra umanità: gli sono spuntati due braccini con due mani, le orecchie, il naso e tutto il resto che non può proprio mancare per essere, appunto, umani.
Ma la similitudine non finisce certo qui. Se Dio si è fatto uomo, beh, si è preso tutti gli annessi e connessi che la nostra umanità comporta: i nostri limiti, le nostre fatiche, la consapevolezza che non siamo indistruttibili, che ci incendiamo per sogni e passioni, ma siamo altrettanto abili pompieri a spegnere il tutto, che arriviamo al capolinea e abbiamo combinato ben poco di ciò che ci eravamo ripromessi nel frattempo. Tutto, «escluso il peccato» (Eb 4,15)!
Chissà quante volte ce lo sentiremo ripetere durante questo tempo natalizio: Dio è umano. Noi no. Mi sembra che lo dicesse già l’indimenticabile don Tonino Bello: noi siamo ragionieri, artigiani, banchieri, estetiste, calciatori, ballerine, imprenditori. E poi frati e suore e sacerdoti... e chi più ne ha più ne metta!
Una vita intera, insomma, impiegata a prendere le distanze dalla nostra umanità, a convincerci che, tutto sommato, siamo qualcosa di più: eccellenze, monsignori, cavalieri, presidenti, direttori, responsabili, possessori di conti correnti o di appartamenti al mare. Con grande spreco di tintura per capelli, cremine, lifting, profumi, monili vari e paillettes. Perennemente a interrogare ansiosi lo specchio magico del «parere degli altri»: «Si vede che sono qualcuno, qualcuna?».
Tutto questo, evidentemente, non è ancora male: ma la nostra umanità, quella, dove l’abbiamo lasciata? Dietro a quale paravento ce la siamo dimenticata? Sotto che strati di «va bene comunque… me ne lavo le mani… che me ne frega… non è affare mio…» l’abbiamo sepolta? È sempre e solo necessaria la malattia, la morte, la vecchiaia per ricordarci che prima di tutto siamo uomini e donne? Che fra le mani abbiamo una tra le cose più preziose che il buon Dio ci abbia donato: la nostra umanità?
La notte o il giorno di Natale ci recheremo probabilmente alla santa Messa e, quindi, a ricevere dal celebrante la comunione. Un pezzo di pane accompagnato da che frase? «La divinità di Cristo»? «Lo spirito di Cristo»? No. «Il corpo di Cristo»!
Anche in questa occasione Dio non si esime dal restituirci la grazia della nostra umanità, abbracciata dalla sua divinità: «Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, e aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché tutti e per intero vi accolga Colui che tutto a voi si offre» (san Francesco, Lettera a tutto l’Ordine).
Buon Natale, uomini e donne…