Zombi e alieni
Semplificando, e non poco, anni di letteratura, fumetti e film trash: noi generalmente confiniamo mostri e morti viventi sulla terra. Magari più esattamente sotto terra, nel folto di una nera foresta, nei corridoi di un albergo perso nella neve, o anche solo «dietro quella porta». Che può eventualmente esserlo di una casa in affitto. In molti altri casi, il mostro di turno ci è addirittura nato nella stanza degli esperimenti: voluto tale e quale o scappatoci infine di mano.
Ci tocca anche aggiungere che spesso – se proprio non lo siamo noi stessi al plenilunio, e se alla fine non è addirittura un nostro conoscente che la cattiveria della gente aveva ridotto così – esso talvolta non è altro che il nostro alter ego: i nostri incubi inconfessabili, quella parte di male che abita anche in noi e con la quale facciamo così fatica a fare i conti. Tra negazione e banalizzazione.
Davvero nessuno è innocente! Ecco, tutto questo horror è qui, in noi, attorno a noi. È nostro «vicino di casa». È come se insinuassimo che ci appartiene, che non ci è assolutamente estraneo. Insomma, roba nostra. Proviamo a spettacolarizzarlo o comunque a rappresentarlo in fiction e libri, ci auto-provochiamo sadicamente sentimenti di repulsione istintiva e terrore, per illuderci di avere la situazione sotto controllo.
Se dal genere horror passiamo poi a quello fantascientifico, il panorama, sia immaginifico che emotivo, si modifica. Tanto alla terra abbiniamo il «male», tanto al cielo invece il «bene». Dalle profondità dello spazio, altrettanto misteriose e sfuggenti al nostro bisogno di circoscrivere e definire, ci aspettiamo civiltà avanzate, chissà perché senz’altro migliori della nostra, quanto a tecnologia ma anche morale. Scrutiamo il cielo a occhio nudo fin dove possiamo per poi affidarci a telescopi di ultima generazione, in cerca di segnali di vita. Che possono concretizzarsi, a seconda della sensibilità di ciascuno, in apparizioni di qualche Madonna, in simboli eucaristici, oppure in segnali apocalittici, piuttosto che dischi volanti o intraducibili messaggi radio.
Non mi interessa qui entrare nel merito della veridicità o meno di tutto questo, ma cogliervi il nostro anelito, il nostro bisogno di sapere o almeno di sperare che da qualche altra parte, lassù, ci sia tutto il bene, il bello e il buono che ci pare di mancare quaggiù. E così abbiamo seguito, lo scorso novembre, con entusiasmo e segrete speranze il viaggio del lander – e cioè una navicella spaziale in grado di posarsi sul suolo di un pianeta – Insight, fino al suo atterraggio, o meglio sarebbe dire «ammartaggio» sul pianeta Marte. Tra l’altro il pianeta rosso comincia ad avere problemi di parcheggio, visto che Insight vi ha trovato Opportunity e Curiosity, in questo caso due rover spaziali abilitati a spostarsi sul suolo marziano, anch’essi spediti lassù dalla Nasa.
Così ci è riuscita l’impresa di dividere e distinguere con precisione il male e il bene, distintamente addossandoli a zombi e alieni: i primi vicini, troppo vicini a noi, i secondi un po’ più distanti, troppo distanti. Come se ci riconoscessimo adatti e capaci più del primo che del secondo. Ma nell’uno e nell’altro caso proiettandoli, quasi «alterizzandoli», su qualcuno fuori di noi. Su qualcun altro, appunto, per giustificare forse da una parte la nostra colpevolezza e dall’altra il nostro desiderio. Come se non fosse colpa o responsabilità nostra né nell’una né nell’altra ipotesi. Come se non ci rimanesse altro che arruolarci tra i ghostbusters, i mitici cacciatori di fantasmi, o inviare nel profondo spazio messaggi a raffica con richieste di aiuto. Di cui, ahimè, già intuiamo la risposta: «Aiutiamoli a casa loro!».