Robert Peroni: un altoatesino dalla parte degli inuit
La gioventù in Alto Adige (è nato a Renon nel 1944), gli studi in psicologia e medicina, la passione per gli sport estremi che lo ha portato ad attraversare a piedi deserti di sabbia e di ghiaccio. E, infine, il colpo di fulmine per una terra inospitale quanto bellissima. Ha un che di fantastico la storia di Robert Peroni che, capitato nel 1980 in Groenlandia come guida di una spedizione, da venticinque anni vive e lavora assieme agli inuit nella Casa Rossa di Tasiilaq, sulla costa est dell’isola: un hotel ecosostenibile aperto proprio per dare lavoro e speranza a questa minoranza etnica che corre il pericolo di estinguersi.
Msa. Lei è nato in provincia di Bolzano, ma vive tra i ghiacci artici da un quarto di secolo. C’è un parallelismo tra l’Alto Adige e la Groenlandia? Peroni. Le due realtà sono molto simili. Nel mio paese natale ci sono montagne e tanti abitanti oltre i mille metri di altitudine. Sono persone speciali e grandi lavoratori. Gentilissimi, anche se un po’ chiusi. Proprio come qui in Groenlandia. Quando mi sono trasferito, gli inuit mi hanno abbracciato e accolto. Fin da subito è stata amicizia. Ma per integrarsi è fondamentale essere miti e mai aggressivi.
Da dove viene la sua passione per l’estremo? (Ride) Non so perché, ma sono sempre stato un po’ estremo in tutto ciò che ho fatto. Mi interessava conoscere popoli, facce e idee nuove. E soprattutto, andare oltre quel limite, oltre l’orizzonte. Non lo facevo per gli altri, ma solo per me.
Negli anni ’80 la sua traversata della Groenlandia – 1.400 chilometri a piedi trainando una slitta assieme a due compagni – è passata alla storia. Tutti ci sconsigliavano di partire, dicevano che non saremmo più tornati. Completamente scollegati col resto del mondo, se ci fossimo rotti una gamba saremmo rimasti là. Ma abbiamo compiuto un’impresa incredibile: fino a quel giorno i 600 chilometri erano il record.
Che tipo di Paese è oggi la Groenlandia? Negli ultimi dieci anni è cambiata molto. Sono arrivati il cellulare, la televisione... Ormai anche la Groenlandia fa parte del mondo globale. La qualità di vita di una volta, però, non c’è più, e a soffrirne sono soprattutto i giovani. Tanti pensano di espatriare, ma è perlopiù un sogno. La maggior parte rimane. Al massimo se ne va un anno in Danimarca per studiare, ma poi torna. Perché la Groenlandia è più di una terra: è un amore. Anche se qui, in certi paesi, il 90 per cento della popolazione non ha un lavoro.
Proprio per far fronte a questo problema, lei ha aperto, nel 1986, la Casa Rossa, un rifugio per avventurieri e sportivi, trasformato poi in hotel ecosostenibile aperto a tutti. Pensando al futuro, ho capito che l’unica possibilità (di sopravvivenza per gli inuit, ndr) è legata al turismo. Così ho comprato questa Casa Rossa e ho accolto chi aveva bisogno di una mano. L’anno scorso la struttura contava settantaquattro impiegati, il che significa – moltiplicando per ogni famiglia – che circa seicento persone traevano beneficio da questo progetto. Oggi la Casa Rossa dispone di un ristorante, cinquantacinque letti e offre un ampio ventaglio di attività per tutti i gusti. Ogni anno la struttura registra circa settemila pernottamenti.
Descriva una sua giornata tipo a Tasiilaq. Mi alzo alle 5 del mattino, vado in ufficio. D’estate organizzo le barche, il trekking, i tour per vedere le balene. Nel pomeriggio mi siedo un po’ con gli ospiti. E alla sera controllo che la cucina funzioni bene. Un po’ come in Italia insomma. La vera differenza sta fuori dall’ufficio. Dalla finestra del mio, io vedo dodici ghiacciai. Proprio davanti alla Casa galleggiano gli iceberg. È un sogno.
A proposito di ghiacciai, come vivete in Groenlandia il surriscaldamento globale? Sentiamo che il ghiaccio diventa più sottile, ma al momento non è ancora una situazione drammatica. Anche se potrebbe diventarlo. Il problema, però, è un altro. Se il ghiaccio si sciogliesse, alla lunga cambierebbe il clima nel mare. E forse se ne andrebbero i pesci, le balene, forse ne soffrirebbero le foche. Sarebbe una catastrofe.
Parliamo di sopravvivenza degli animali, ma anche di quella di una minoranza etnica come gli inuit che è a rischio a causa della globalizzazione e delle leggi sul divieto di caccia. Al momento non si sa come gestire la situazione, perché la concorrenza è tutto il mondo. E gli inuit sono una minoranza davvero minima. Non hanno una lingua scritta e parlano un dialetto. Perderlo significherebbe perdere l’identità. Di questo passo, tra dieci anni forse la cultura inuit come la conosciamo oggi, sparirà.
C’è un modo per evitarlo? Quello che possiamo fare insieme è ridare dignità agli inuit. In passato li abbiamo classificati come cacciatori primitivi, stupidi e analfabeti. Ora possiamo restituire loro la dignità propria dell’essere umano e di chi lavora. Per questo nel mio hotel accetto tutti. Non mi interessa se sanno leggere o scrivere: la dignità dipende da ben altro.
Ogni anno la Casa Rossa si amplia un po’. Ci sono progetti in cantiere per il 2020? Il turismo ha due facce. Una molto negativa che distrugge tutto con i soldi. L’altra è rappresentata da turisti che vengono qui, cercano di capire e portano anche qualche cosa. Per fare spazio a questo turismo «giusto», alla Casa Rossa ogni anno cerchiamo di ampliare gli ambienti, senza esagerare. Più posto significa anche più possibilità e più lavoro per gli inuit.
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