Magnum, scatti ad alta quota
Vi siete mai chiesti che effetto farebbe La Vergine delle rocce di Leonardo se al posto di quelle guglie sullo sfondo avesse un bel deserto? E che panorama riuscirebbe mai a scorgere il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich senza l’aiuto di quel picco scuro che si staglia sopra l’abisso? La montagna costituisce da sempre uno scenario privilegiato per l’arte: dal Rinascimento alle avanguardie, dalla pittura all’incisione e, più di recente, alla fotografia. È il 1839 quando nasce la cosiddetta «ottava arte» per opera di Louis Mandé Daguerre (l’inventore della dagherrotipia). Di lì in avanti sono molte le pellicole impressionate ad alta quota. Testimoniano le avventure dei primi alpinisti (dal 1850), ma anche la bellezza e la maestosità di luoghi incontaminati che, fino ad allora, l’uomo poteva solo sognare. Affascinati dalla montagna quale luogo mistico e primigenio, per immortalarla i reporter affrontano lunghi viaggi con chili di attrezzatura al seguito.
Tra questi pionieri ci sono anche Robert Capa, Henri Cartier-Bresson e George Rodger, fondatori nel 1947, assieme a David Seymour, dell’agenzia Magnum. Intorno a loro, col passare degli anni, la lista di talenti si allunga. Inge Morath, Herbert List, Elliott Erwitt, René Burri, Ferdinando Scianna, Steve McCurry… È grazie a simili giganti dell’obiettivo se oggi, e fino al 6 gennaio, al Forte di Bard di Aosta possiamo visitare la mostra «Mountains by Magnum Photographers». Tratti dagli archivi Magnum, i centotrenta scatti esposti in ordine cronologico ripercorrono centottanta anni di sfide e quotidianità. Tra il XIX e il XX secolo «l’alpinismo e la fotografia si sviluppano fianco a fianco» scrive la storica dell’arte Nathalie Herschdorfer a margine della mostra. Ma se nel primo caso parliamo di uno sport per pochi, in cui allenamento e sacrificio sono indispensabili, la fotografia appare fin dagli esordi molto più accessibile, perché «permette alle persone di viaggiare senza lasciare le loro case». E, in definitiva, si offre quale strumento di evasione oltre che di informazione e denuncia.
Corpo & spirito
Fazzoletto al collo, corda alla mano e ramponi ai piedi, un uomo si sporge su una coltre di picchi innevati, mentre il sole fa capolino tra i cirri. Anche se lo vediamo solo di spalle, questo alpinista che contempla le Alpi svizzere è il ritratto della felicità. Lo immortala nel 1940 un altro cultore della montagna: Werner Bischof, che, per l’agenzia Magnum, salirà più volte in vetta. Il fotoreporter passa con disinvoltura dalla catena dell’Himalaya alle Ande peruviane, dove a soli 38 anni perde la vita in un incidente d’auto. È il primo della scuderia Magnum ad andarsene. Dopo di lui toccherà a un’altra leggenda della pellicola: Robert Capa, morto nel 1954 calpestando una mina a Thai Binh, in Indocina. Noto per i suoi reportage di guerra, dieci anni prima il fotografo ungherese si reca sulle montagne intorno a Cassino (FR) per raccontare il conflitto di posizione tra le forze speciali americano-canadesi e quelle tedesche. Lo scatto ci trasferisce in una trincea, fianco a fianco con tre soldati appostati e pronti a sparare. La sofferenza e il logorio di quei giorni affiora dalla stampa in bianco e nero.
Ma la montagna non può ridursi a freddo teatro di una carneficina. E merita un ritratto più variegato. Capa ne è ben consapevole quando, giunto a Zermatt, in Svizzera, nel 1950, fotografa tre sciatori che solcano la pista. Alle loro spalle il Monte Cervino punge la volta cobalto di una giornata da ricordare. La montagna è sport e divertimento, ma è anche relax e solitudine. Vedere per credere l’aria assorta della ragazza che prende il sole e legge il giornale all’ombra del cosiddetto Matterhorn: 4.478 metri di pura magnificenza. Che sia tramite il corpo o la mente, evasione fa spesso rima con altitudine. Quale miglior location di uno sperone di roccia sospeso sul nulla per meditare e riconnettersi con l’universo? Se lo deve essere chiesto pure Hiroji Kubota quando, nel 1978, sorprende un gruppo di monaci buddisti in preghiera davanti a un gigantesco masso dorato a strapiombo sulla valle (The Golden Rock at Shwe Pyi). La pietra in questione appartiene alla Pagoda Kyaiktiyo, nota meta di pellegrinaggio in Birmania.
«Per secoli – scrive ancora Nathalie Herschdorfer – le cime delle montagne sono state viste come collegamenti tra il cielo e la terra. Queste credenze sono visibili nelle foto scattate in tutto il mondo, non solo nella bellezza del paesaggio, ma nelle immagini di rituali sacri avvenuti sulle montagne». Pensiamo al funerale documentato da Henri Cartier-Bresson in Basilicata nel 1951, dove la bara guida il corteo funebre attraverso un altopiano cinto da rilievi. Dall’Italia alla Cina, al seguito di Lu Nan, atterriamo su un tovagliolo di terra tra i monti dello Yunnan. È il 1993 e una folla si stringe a mani giunte intorno a una fossa. La croce bianca posata a terra parla chiaro: ci troviamo nel bel mezzo di una sepoltura. E anche se non sappiamo nulla del defunto, l’atmosfera di sacralità e sospensione che scaturisce dall’istantanea non ha bisogno di tante spiegazioni. «Guardando queste fotografie talvolta può risultare difficile immaginare quando sono state scattate. Le cerimonie sembrano senza tempo, (...) con il rigido clima che sembra quasi giocare un ruolo» conclude Nathalie Herschdorfer.
Turismo in vetta
Se la spiritualità si addice alle vette, non di solo spirito vive e cresce l’essere umano che le frequenta. Da qui la scelta di alcuni fotografi Magnum di raccontare il lato più commerciale di Alpi & co., dando vita a un caleidoscopio di situazioni e personaggi pittoreschi. Ci sono i turisti in posa con un lama davanti alle rovine del Macchu Picchu in Perù (foto di Martin Parr), c’è la famigliola appostata con tanto di ombrellone e reflex, in attesa che passi il Tour de France nel 1982 (Harry Gruyaert). E ancora: la fila di persone ipnotizzate dal Monte Fuji (Chris Steele-Perkins), i paesaggi da cartolina e i negozi di souvenir di Chamonix e Bonneval-sur-Arc (Raymond Depardon). Montagna è anche condividere il pranzo su una terrazza austriaca vista ghiacciaio (Carl De Keyzer) o guidare per ore sotto la neve nel Nord del Cile (Patrick Zachmann).
Come linfa vitale che spurga dalla roccia, la neve tappezza passi e laghi in Argentina (René Burri), cosparge piste da sci in Iran (Newsha Tavakolian), poi s’insinua tra i pinnacoli della Val d’Aosta, dove troneggiano alcune delle più alte montagne d’Europa. A documentarne lo stato di salute è Paolo Pellegrin, già inviato di guerra in Kosovo, Iraq, Libano e Palestina. Questa volta il reporter si confronta, però, con un altro tipo di emergenza: lo scioglimento dei ghiacci. Per documentarlo, Pellegrin sale più volte in quota a caccia della sua luce preferita: filtrata dalle nuvole strappate dal vento. «Basandosi sulla leggerezza della composizione (...) – scrive Pietro Giglio, presidente del Collegio nazionale guide alpine italiane –, questo distinto fotografo ha evidenziato con successo le contraddizioni che interessano sia l’umanità che la natura. Pellegrin ha catturato in entrambi i casi quell’elemento comune chiamato Caos, per il quale l’umanità ha sempre cercato di trovare un ordine senza mai riuscirci pienamente». Posto che il χάος greco contiene in sé la radice χα- del verbo χαίνειν (in italiano: «essere aperto»), non c’è motivo di opporsi allo spaesamento prodotto dagli scatti di Pellegrin. Dopotutto, come diceva Henri Cartier-Bresson, il fotografo è «testimone del transitorio». E noi, in quanto abitanti della Terra, siamo figli della precarietà.
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