Benvenuti nell’Anthropocene

Alcuni scienziati hanno soprannominato così questa era geologica caratterizzata da profondi mutamenti terrestri causati dall’uomo. Una mostra video-fotografica a Bologna ne racconta dinamiche, cause e conseguenze.
26 Agosto 2019 | di

C’è sempre un momento, prima della catastrofe, per invertire la rotta e ricominciare a sperare. È il punto di ritorno, il cosiddetto «rotto della cuffia» che fa la differenza. Per noi abitanti della Terra – complici inquinamento, deforestazione e boom demografico – quel tempo è quasi scaduto. L’uomo ha scavato troppo a fondo nelle risorse del pianeta. Con avidità e senza lungimiranza. E adesso? Ci vorrebbe un miracolo, sentenziano alcuni scienziati. Per altri, invece, non tutto è perduto. Ma serve un’azione mirata, una scossa al senso di responsabilità collettivo. Guarda caso, ha proprio l’effetto di una corrente elettrica la mostra «Anthropocene», allestita al Mast di Bologna in anteprima italiana fino al 6 ottobre.

Cosa mai potrà un’esposizione video-fotografica contro la rovina del pianeta? Chiedetelo ai tre canadesi Edward Burtynsky, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier, che hanno impiegato quattro anni per documentare le ferite inflitte dall’uomo alla sua terra. «Non vogliamo fare prediche, rivendicare o attribuire colpe» assicura Baichwal. «La nostra è una testimonianza reale – le fa eco Burtynsky –. Far vivere queste realtà attraverso la fotografia è come creare un potente meccanismo che dà forma alle coscienze». Non c’è cambiamento senza apprendimento. Da qui la volontà dei tre artisti di comporre una mostra esperienziale e interattiva che parli tutte le lingue, soprattutto quella dei giovani: i veri depositari del futuro del pianeta. Nella speranza che, quando il cambio del testimone verrà, non lasceremo loro soltanto un territorio compromesso, ma anche qualche chance di riuscire laddove noi abbiamo fallito.

Carico di sacchi come un mulo, un uomo si trascina per un sentiero melmoso. Intorno a lui strane montagnole alte cinque metri celano un torbido orizzonte. A una prima occhiata, il video di Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier sulla Discarica di Dandora a Nairobi sembra lo scenario di un film post-apocalittico. Passo dopo passo, però, l’incubo diventa realtà. Reali sono le duemila tonnellate di rifiuti che ogni giorno alimentano quel buco nero della vergogna: 120 mila metri quadrati lordati a partire dagli anni Settanta. Come la discarica kenyota, così tutte le location raccontate nella mostra al Mast sono testimoni di una nuova era geologica: l’Anthropocene appunto (dal greco anthropos, uomo). Un’epoca caratterizzata da profondi mutamenti terrestri dovuti all’opera umana. Vedere per credere le trentacinque foto, i quattro murales, le tredici videoinstallazioni in realtà virtuale e aumentata che tappezzano le pareti della galleria bolognese.

Partendo dalla ricerca di un gruppo di scienziati (Anthropocene Working Group), Burtynsky, Baichwal e de Pencier rincorrono le tracce (markers) lasciate dal processo di industrializzazione che, a partire dal primo Ottocento, ha accelerato lo sfruttamento delle risorse terrestri. Con l’aiuto di droni, satelliti e software di ultima generazione, gli artisti tratteggiano una realtà desolante fatta di miniere e raffinerie, piantagioni rubate alla foresta e monotone megalopoli. Proprio come un parassita, l’uomo prende e non dà nulla in cambio. Succhia il sangue al pianeta e non si preoccupa di curarne le piaghe. «Quanto ancora la Terra ci sopporterà?» viene da chiedersi mentre attraversiamo con gli occhi il tunnel più lungo del mondo (Galleria del San Gottardo, Svizzera): 57 chilometri che hanno richiesto diciassette anni di lavori e l’estrazione di 28 milioni di tonnellate di roccia.

Tra stormi di tetrapodi (strutture in cemento sistemate lungo il 60 per cento delle coste cinesi per contrastarne l’erosione) e treni che trasportano carbone in Wyoming, ci addentriamo nel folto di una lussureggiante foresta. È la Cathedral Grove, nella British Columbia, tra le poche aree boschive del mondo a non essere stata ancora sciupata dalla voracità umana. Un mosaico di foglie, tronchi e muschi dove la morte è solo uno stadio. E dove gli alberi caduti, ricoperti di vegetazione, sono inglobati in un eterno processo di rinascita. La pace regna davanti a questo maxi-scatto realizzato assemblando centinaia di foto. Poi a un tratto un tonfo squarcia il silenzio. È un albero «pericoloso» fatto esplodere nella stessa selva australiana. Il video di Baichwal e de Pencier non ha bisogno di sottotitoli. La mano dell’uomo è arrivata pure qui. Non c’è più tempo da perdere.

Il nostro volo prosegue tra i miliardi di tetti e viuzze di Lagos, città nigeriana definita da Burtynsky: «Crogiolo iperattivo della globalizzazione». Una tappa in California, per verificare gli effetti dell’urbanizzazione incontrollata (urban sprawl). E poi giù fino in Cile, alla scoperta delle miniere di litio nelle piane del sale di Atacama. Se ignorassimo che quelle palettes verdi e blu sono in realtà vasche per l’evaporazione del metallo, saremmo tentati di vederci una base d’atterraggio per astronavi. L’apparenza inganna. E le distanze generano paradossi. Nonostante ne siano ben consapevoli, i tre autori non rinunciano alla prospettiva aerea. Il loro è uno sguardo lontano ma vicino. Surreale eppure concreto.

La realtà tarpa le ali e ci riporta nel foyer del Mast. Da una parete all’altra assistiamo a un defilè di dighe, serre, pozzi, raffinerie. L’industria non dorme mai. Si espande come quelle nuvole velenose fuoriuscite dai camini delle fabbriche. Minuto dopo minuto morde l’atmosfera e scippa futuro. A poco sono serviti gli avvertimenti degli scienziati sin dagli anni ’60. Solo dal 2015 la Conferenza di Parigi ha messo nero su bianco l’impegno di oltre 190 Paesi a ridurre i gas serra entro il 2020. Il tempo però stringe. E i risultati sono poco incoraggianti.

Finché c’è vita, comunque, c’è speranza. Per questo Burtynsky, Baichwal e de Pencier hanno portato al Mast forse l’unica barriera corallina incontaminata. Siamo nel Komodo National Park, in Indonesia. La gigantografia catturata a oltre 18 metri di profondità riproduce un variopinto arazzo di biodiversità che, grazie al particolare habitat, non è stato danneggiato dal surriscaldamento dei mari. Ancora abbagliati dalla luminosità delle madrepore, scendiamo verso l’ultima sezione della mostra: un percorso di installazioni e pannelli interattivi per calare la questione ambientale nella nostra quotidianità.

Più nozioni immagazziniamo più la frustrazione galoppa. Quando lo schermo all’uscita chiede «Come ti senti?», siamo tentati di uniformarci al 34 per cento di chi ci ha preceduto e di rispondere: «Preoccupato». Ma poi incappiamo nella voce «Motivato» e il dito sfiora in automatico il touchscreen. Troppo facile rassegnarsi alla fine. E se una volta tanto mettessimo le nostre conquiste al servizio della Terra? In vista di questa eventualità, lo strumento da coltivare è la resilienza: la capacità di resistere alle avversità facendo fronte comune. Come fossimo un ecosistema. Perché se è vero che l’uomo è un animale sociale (Aristotele, Politica) e la Terra la sua casa, non c’è priorità che tenga alla salvaguardia del Creato. Avere rispetto per l’ambiente e le crea­ture che lo abitano significa, in definitiva, avere rispetto per se stessi e per Chi ci ha creati.

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Data di aggiornamento: 26 Agosto 2019
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