Tragica risata
Chi è «Joker»? Perché questo criminale ride, ghigna, si burla del mondo? Come è nata la sua violenza beffarda, la sua aggressività strafottente? «Joker» (che si chiama in realtà Arthur Fleck e condivide uno squallido appartamento con l’anziana madre Penny) assimila, concentra e porta in scena le contraddizioni di Gotham City (siamo nel 1981), una città malata, sporca, ingiusta, buia, opaca, orrenda sul piano architettonico e morale.
Se vivi tra i lupi, se da bambino abusano di te, se la mamma ti mente, se tuo padre ti disconosce, se nessun Dio ti promette misericordia, se il tuo sogno artistico (diventare un cabarettista comico) viene irriso e beffato dai potenti della TV (come il presentatore Murray Franklin, che Arthur idolatra) e sei costretto a fare il clown per quattro soldi, allora fai fatica a credere alla tenerezza di una ragazza madre, Sophie, la vicina di casa che ti avvicina con affetto in ascensore. Allora nutri ragioni di sospetto verso una psicologa monotona, affettivamente lontana, abbandonata lei stessa dalle istituzioni. Se un gruppo di teppistelli ti massacra per puro divertimento, allora viene in mente di farti giustizia da solo.
Al bambino Arthur veniva chiesto il compito impossibile di sollevare il morale degli adulti, camuffare l’angoscia del gruppo (una famiglia schizoide, conflittuale, perversa), restituire sorrisi a ogni costo. Quel piccolo, dotato e perspicace, impara allora a vestire una maschera, a disegnarsi sul volto un sorriso implausibile, a divertire un entourage spaventato e spaventante. Si addestra a un ruolo che non è il suo e previene la depressione, fondendosi oblativamente con chi – come la madre – gli chiede aiuto e non può fare a meno di lui.
L’atteggiamento maniacale è l’altra faccia di una malinconia crudele, di un singhiozzo trattenuto. Ma non è solo una reazione psicologica, è un’opzione etica. Per non avvertire sensi di colpa, per godere trionfalmente della propria furbizia, per pianificare senza scrupoli una vendetta, il soggetto euforico ride!
Egli gode del «tanto peggio tanto meglio»! Arthur, nelle sequenze più liriche del film, danza da solo il suo balletto allucinato e paranoico, come davanti a uno specchio invisibile. Una musica interiore lo rapisce nel delirio, anche quando, nel mondo vero, le proteste di massa fanno vittime innocenti e travolgono e calpestano i corpi dei più sfortunati. Quella massa acclama addirittura il «Joker» come idolo, leader, esempio rivoluzionario.
Il film di Philips esplora la genesi di «Joker», l’eterno rivale di «Batman» e scopre una verità inquietante: tra i due antagonisti c’è come una parentela di sangue. Dietro di loro (dietro il delinquente maligno e dietro il difensore dei deboli) c’è lo stesso humus violento, che si scinde semplicemente in due squadre e che soffia vita su due burattini opposti, divisi da un beffardo gioco delle parti, da un sortilegio fiabesco, da una flebile scelta di libertà.
Logorroico, vanitoso, eccentrico, ma assieme burlone, imprevedibile, eccentrico, giocoso, «Joker» è un’immagine del cinema stesso, che si prende una rivincita infernale sulla vita offesa. Arthur non ha altri maestri ed educatori che la televisione e il cinema, con i loro mille generi letterari, i loro sogni a occhi aperti, le trame improbabili, le finzioni degli Studios, l’indifferenza tra la vernice rossa e il sangue vero, l’impudenza dello sguardo che entra nelle case, viola l’intimità, sollecita la risata o il pianto, reclama l’applauso.
Il ricco, buon Batman vive in una caverna, si ripara con una mantellina notturna, da topo volante. Il tremendo «Joker» pretende invece la luce dei riflettori, ha un disperato bisogno di rapporti e si logora come una star drogata, esibendo un’ilarità di plastica per la macchina da presa. I cittadini di Gotham City elogiano il soccorrevole Batman, ma osannano il peccaminoso Joker quando entrano in guerra, quando danno sfogo alla loro ferocia.
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