La donna con la croce
Una donna si appropria della croce! Siamo nella città macedone di Štip. Petrunya, 32 anni, laureata in Storia, disoccupata, si lancia istintivamente nel gelido fiume in cui il pope (il barbuto parroco della Chiesa ortodossa locale) ha gettato una piccola croce di legno. È l’usanza liturgica della processione d’Epifania: chi ripesca l’icona godrà buona sorte per un intero anno. Giovani maschi aitanti, vigorosi ed eccitati come a una gara sportiva, si tuffano nelle acque, ma è lei, Petrunya, ad avere la meglio.
Ora la croce è sua. Ma qualcuno gliela vuole strappare di mano. Il cimento religioso è di solito riservato agli uomini. Si tratta di una convenzione tradizionale e non di una legge scritta o di una dottrina canonica. Perciò i fanatici contendenti, smaniosi del trofeo e avviliti dallo smacco clamoroso e ridicolo, insultano Petrunya: «Ci hai rubato la croce!». «Sei fuggita come una ladra!». Il pastore non sa che pesci pigliare; costantemente aggrappato al telefonino, non ha il coraggio di fronteggiare il branco, non vuol procurare grane all’arcivescovo e chiede alla donna di restituirgli semplicemente il trofeo, come se nulla fosse accaduto. La polizia, d’altra parte, non è interessata alla verità, ma all’ordine pubblico e usa il bastone e la carota per minacciare, ricattare o almeno persuadere chi ha introdotto un’innovazione paritaria, senza violare alcuna legge.
L’ignoranza, la cattiveria e il potere si coalizzano durante una notte di prigionia e condannano la vittima a un calvario di sequestro e di offese. Come nelle vie crucis dei nostri Sacri monti, una «giusta innocente» patisce nella carne sputi, spinte e provocazioni. Pochi sono invece coloro che mostrano pietà alla «crocefissa»: il papà malato, leale e comprensivo («Petrunya non può aver fatto nulla; è una brava ragazza, senza lavoro»); il giovane gendarme, che le offre una tuta asciutta per rivestirsi e accenna alla possibilità di rivederla; la coraggiosa giornalista, che si gioca il posto di lavoro pur di filmare tutta la vicenda («Non mollare, Petrunya!Sse non sei in arresto, non possono trattenerti in caserma»). È proprio la giornalista a portare lo scontro al livello teologico pertinente: finché non impareremo a nominare Dio al femminile, queste abiezioni continueranno a ripetersi.
Il gesto della protagonista è il simbolo di un’emancipazione esplosiva, che scuote ormai alle radici certe regole sociali maschiliste, che vigono tuttora nel mondo laico e religioso. Il corpo obeso, verginale e quasi infantile di Petrunya, appesantito da una soffocante presenza materna, logorato dalla povertà, irriso da volgari imprenditori neo-schiavisti, blandito da una vuota retorica pseudo-cristiana, ha uno scatto imprevisto: in quel tuffo c’è rabbia, orgoglio, desiderio di riconoscimento, fame materiale e morale, illusione superstiziosa. Ora basta vivere ai margini, starsene sotto le coperte a piluccare la solita sbobba! Basta fingere che le istituzioni provvedano alle tue esigenze. Basta mordersi la lingua quando il lessico della pornografia e del mercato ti trasforma in un manichino. Ora è il tempo di puntare ai simboli che contano, di reclamare il centro della vita, di prendersi quella giustizia che, in passato, sembrava blasfemo solo immaginare.
L’itinerario etico di Petrunya (che ha per lei stessa esiti imprevisti) non nasce da una devozione religiosa regolare, ma le fa lentamente percepire nella croce il simbolo affidabile di una lotta di liberazione. Con una croce in mano si può reclamare giustizia e pretendere cura per tutte le croci che i deboli hanno nel cuore. La trama attinge a una storia vera. «Petrunya è un esempio del potere che ha il cinema di cambiare le cose» ha dichiarato l’autrice. (Lo scorso 27 novembre il film Dio è donna e si chiama Petrunya ha vinto il premio LUX del Parlamento europeo).
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