Rohingya, dramma senza fine
Capanne fatte di fango, che con le piogge monsoniche tendono a dilavarsi. Baracche di legno e fogli di plastica, che non riparano da nulla; tende da campeggio, calde d’estate e fredde d’inverno.
Un panorama che si estende per migliaia di metri, tra piazze fangose e acquitrini: sono i campi profughi Rohingya nella regione di Cox’s Bazar, nel sud del Bangladesh, a pochi chilometri dal confine con il Myanmar. La baraccopoli è suddivisa in decine di campi, costruiti in diversi periodi, a seconda delle ondate di rifugiati giunti qui dal Myanmar. Il campo di Kutupalong è quello più affollato.
Si calcola vi siano ospitati almeno 1,2 milioni di Rohingya, una popolazione di etnia bengalese, in maggioranza musulmana sunnita, cacciata dalla regione del Rakhine, in Myanmar, dove viveva da generazioni; riparata in Bangladesh, che la sopporta, ma il cui governo ha dichiarato di essersi «stancato» di offrire ospitalità.
Secondo molti osservatori, e la stessa Onu, la questione dei profughi Rohingya rappresenta una delle storie più dolorose, e la loro minoranza viene indicata come quella «più perseguitata al mondo».
Il dramma dei profughi
In tutti questi anni, i molti tentativi messi in atto da gruppi di profughi per trovare rifugio in Thailandia, Indonesia, Australia, Malaysia, sono stati senza successo: all’arrivo di barconi carichi di profughi, la marina militare di questi Paesi li ha ricacciati al largo con la forza, offrendo loro solo un po’ di cibo e acqua, rigettandoli in una nuova odissea.
Lo scorso aprile, almeno 60 Rohingya sono morti di stenti su una nave che ne conteneva 500. Per oltre due mesi, dal Bangladesh, la loro nave ha girato nel Golfo del Bengala alla ricerca di accoglienza, ma è stata rifiutata da porti thailandesi e malaysiani. Alla fine, la nave è stata presa in custodia delle guardie costiere bangladeshi e quelli rimasti vivi sono ritornati a Cox’s Bazar.
Il racconto dei sopravvissuti
I sopravvissuti narrano che la nave aveva solcato il mare per oltre due mesi, ma senza avere riserve di cibo, acqua, medicine. Dopo una breve preghiera, i 60 morti sono stati gettati in mare. Anche il capitano della nave è morto, ucciso in uno scontro con i Rohingya. Secondo alcuni di loro, aveva tentato di stuprare qualcuna delle donne.
La situazione dei Rohingya è divenuta tragica dal 25 agosto 2017, quando, a causa di alcuni scontri con gruppi militanti fondamentalisti Rohingya, le forze di sicurezza birmana ed estremisti buddisti si sono dati a violenze senza fine, cacciando via la popolazione dello Stato del Rakhine e bloccando le operazioni umanitarie. Secondo Médecins sans frontières, tra il 25 agosto e il 24 settembre del 2017, sono stati uccisi 6.700 Rohingya. Tra questi sono compresi anche 730 bambini sotto i 3 anni di età. Il governo birmano si è difeso dicendo di aver combattuto contro terroristi.
«Tentativo di genocidio»
Dopo le violenze del 2017, definite dalla Corte internazionale dell’Aia «un tentativo di genocidio», dietro pressione internazionale, Bangladesh e Myanmar si sono accordati per un ritorno «volontario, sicuro e dignitoso» dei Rohingya che «ne hanno diritto», ossia che abbiano vissuto nel Paese per decenni e che non siano parte di organizzazioni terroristiche: vi sono infatti frange che militano in gruppi islamici fondamentalisti, che vogliono uno Stato islamico nella regione di Rakhine.
Ma dal 2017 a oggi sono rientrate appena poche centinaia di profughi. La maggioranza tornerebbe in Myanmar solo se Naypyidaw concedesse loro la piena cittadinanza. Ciò permetterebbe loro di avere il diritto di sfruttare le risorse del territorio, che comprendono anche il petrolio. Ma l’esercito del Myanmar, che ha in mano l’economia del Paese, esclude questa possibilità, e accetta unicamente Rohingya che si definiscano soltanto «residenti».
Comunità internazionale divisa
La Cina sostiene i militari birmani e l’ordine nel Rakhine, da dove parte un oleodotto che giunge fino a Kunming. Essa esige sicurezza e teme scontri tra Rohingya ritornati e gruppi buddisti fondamentalisti.
Il mondo occidentale predica l’accoglienza a tutti i costi, critica il Bangladesh, condanna il Myanmar, ma fa poco per sostenere l’economia dei due Paesi su cui pesa il presente e il futuro dei profughi. Il governo birmano ha preparato villaggi, case, terreni per i rifugiati che volessero ritornare. Ma nessuno si fa avanti. Secondo Dhaka, sono i capi dei profughi e le Ong a consigliare ai profughi il non ritorno, sperando di ottenere di più.
Al presente vi sono circa cento Ong che lavorano per i rifugiati Rohingya. Tra queste vi è la Caritas-Bangladesh, che è stata tra le prime ad arrivare e intervenire. La Caritas opera nella zona con 200 impiegati e offre cibo, ripari, cure mediche, strumenti per la pulizia, ecc.
Le lacrime del Papa
Durante la sua visita in Bangladesh, nel dicembre 2017, papa Francesco ha incontrato alcuni Rohingya a Dhaka. Ascoltando le loro storie il Santo Padre ha pianto.
Il reportage completo, con tutte le immagini che arrivano direttamente dai campi profughi, è pubblicato nel numero di ottobre 2020 del «Messaggero di sant’Antonio» e nell'edizione digitale che puoi provare gratuitamente cliccando qui.