La pazienza di Rotonda
Antonio è un santo paziente. In questi tempi, la pazienza è una virtù. E il popolo di Rotonda (PZ), 3.300 abitanti, ai confini della valle del Mercure, ha saputo praticarla. I giorni del Santo, ai primi di giugno, sono tra i più belli dell’anno sulle pendici occidentali del Pollino, massiccio montuoso della Lucania. La natura e gli uomini si godono la primavera e, tra la fine di maggio e i primi di giugno, fervono i preparativi della festa. Ma lo scorso anno non vi è stata la frenetica attesa della Sagra dell’Abete che coincide con il tempo delle preghiere più profonde al Santo e con il giorno del suo ricordo.
La pandemia non ha risparmiato il Pollino. Né Rotonda. Non c’è stato il taglio della pitu, un faggio di ventidue metri (convinto di essere un abete, ma questa è un’altra storia), e della rocca (questo sì, è un abete); non c’è stato il corteo infinito dei buoi né le corse dei ragazzi, o i suoni degli organetti e le luminarie, il cerchio delle tarantelle o le benedizioni degli animali. Lo scorso anno a Rotonda hanno avuto attenzione e prudenza, hanno chiesto alla festa di farsi silenziosa e coraggiosa. Ma Antonio ha capito: c’è un suo grande murale sulla parete di una bella casa della piazza principale del paese, il Santo ha sorriso quando, il 13 giugno dello scorso anno, ha visto i paesani accorrere per la sua Messa all’aperto. Attenti a distanziarsi tra sedie, panchine e alberi, hanno pregato con convinzione. In tempi normali, avrebbe dovuto essere l’ultimo atto della festa, lo scorso anno è stato un rito solitario ed emozionante, Rotonda si prendeva un suo tempo sacro.
Anche quest’anno, il mondo imprigionato dal covid, la festa, con molta probabilità, non ci sarà (speriamo di sbagliarci), il paese troverà un nuovo equilibrio lento e pregherà per ritrovare la gioia degli anni precedenti. In queste settimane i paesani vivono di nostalgia e qualcuno spera nel miracolo della scomparsa del virus. In fondo, quest’anno è una «ricorrenza»: otto secoli fa, nella primavera del 1221, due frati, assieme ai confratelli siciliani, stavano risalendo a piedi l’Italia lungo la via Popilia. Antonio e Filippino, scampati a un naufragio in Sicilia, avevano saputo che Francesco aveva convocato ad Assisi il primo Capitolo Generale del nuovo ordine.
Il loro passaggio in Pollino è stata una storia di miracoli: al paese raccontano che, una mattina, un boscaiolo aveva tagliato, con disattenzione, un grande abete. Gli era caduto addosso, ne era rimasto prigioniero. L’uomo invocò l’aiuto di Antonio. Riuscì a liberarsi. E, da allora, come ringraziamento, ogni anno, la gente dei boschi di Rotonda porta un abete in dono al Santo. Era legna che aiutava a riscaldare i freddi inverni della montagna ed era materiale per restaurare case e la chiesa. Da allora, da quel primo leggendario miracolo, Antonio è il culto e la devozione di Rotonda. Miracoli e apparizioni si sono ripetuti nel tempo.
Anni fa, ho conosciuto Carletto: è uno dei protagonisti della festa, allora era vicecapo della Pitu, il gruppo che taglia e trasporta il faggio sacro. A 12 anni, Carletto rimase paralizzato, i medici non sapevano guarirlo: nel giorno della festa i genitori misero il ragazzino a cavalcioni dell’albero trasportato giù dalla montagna; Carletto, poco dopo, cominciò a camminare. «Basta crederci», mi disse quando, quarant’anni dopo, mi raccontò la sua storia. Io l’ho ammirato quando guidava, con maestria, il tumulto di chi trasporta il grande albero. Ha ripreso a camminare anche Giuseppe.
Era tornato da anni di lavoro in Francia con una malattia alle gambe. Una notte, alla vigilia della festa, qualcuno entrò nella sua camera. Una visione, era un frate. Giuseppe ascoltò l’invito dell’apparizione: «Vieni in montagna per la festa. Ti aspetto». Le sue gambe erano immobili, ma la famiglia lo aiutò a montare su un asino e a salire in montagna. Quando la processione del Santo, il giorno dopo, attraversò il paese, Giuseppe avvertì un brivido nella pelle e sentì la forza tornare nei suoi muscoli. Riprese a camminare.
La prima volta, più di dieci anni fa, che sono salito tra i boschi oltre Pedarreto, ho ascoltato, dopo il taglio dell’albero, le litanie di Zi’ Maria: per anni questa donna ha intonato, in lingua antica, canti e preghiere per chiedere grazia al Santo. Ho capito, in quella scena da Bibbia rurale, l’importanza della festa per la gente delle montagne. I riti arborei di questa terra (che si celebrano anche in altri otto paesi lucani) sono devozione, fede, venerazione. «Queste feste – mi spiegò don Stefano Nicolao, parroco di Rotonda – sono l’adempimento di un voto collettivo. La fatica e il sacrificio di questa comunità sono un dono al Santo».
Don Stefano ha saputo guidarmi nell’anima della festa. Il cristianesimo, nei secoli, con lentezza, è stato capace di dare i propri significati alla religione naturale delle montagne. I riti di fertilità dei boschi sono diventati devozione e gratitudine al divino. I riti arborei del Pollino sono fede e felicità, ebbrezza e preghiera, adrenalina e raccoglimento. Grandi risate e pianti dirotti. Si passano le notti a cantare, mangiare, bere e ballare. Sono prove di destrezza, abilità con le motoseghe e prodigi di taglialegna. Si prega con intensità e si ricordano i paesani che non ci sono più.
I ragazzi del paese indossano magliette che, sulla schiena, affermano il loro impegno: «Tutto per sant’Antonio». Scoppia un grido e un incitamento si insegue lungo il viaggio dell’albero: a ogni ostacolo, a ogni difficoltà (l’albero tirato da un fantastico corteo di una ventina di buoi si incastra, inciampa), ci si guarda per un attimo e, in coro, scatta l’incoraggiamento: «‘E… e… e… viva sant’Antonio». È un fremito che percorre la testa del corteo, un’ondata leggera e inarrestabile. Ci si dà forza urlando a crocchio in onore del Santo. In queste settimane che ancora ci separano dal 13 giugno, sarà un grido che i paesani dovranno ripetersi per avere ragione della malinconia di giorni rimasti orfani della festa.
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