I colori, i sorrisi di Patty
Stava facendo scivolare tra le mani la sabbia infuocata del deserto del Wahiba quando la notai per la prima volta alle prese con una fotografia. Patty aveva un modo originale, e solamente suo, per approcciarsi alla creazione di un’immagine. Prima di ogni fotografia nutriva il bisogno di immergersi nella situazione, di capire, di approfondire, di metabolizzare. Non scattava perché bisognava scattare. Non era assetata dell’istantanea a tutti i costi, fotografava quando sentiva le vibrazioni della sua anima. Ogni sua fotografia era fine a se stessa e univoca. Il suo fotografare era innanzitutto un progetto mentale, meditato nell’istante in cui, il desiderio della rappresentazione personale entrava a far parte della metamorfosi cerebrale. La sua ambizione primaria era quella di fissare e riportare un frammento di vita quotidiana. Quella del suo mondo interiore che, per innata discrezione, lasciava poco trasparire. I soli occhi non gli sono mai bastati, il suo sguardo aveva bisogno di andare oltre la pura visione. Non la si vedeva mai «spianare» l’obiettivo di fronte a una persona. Neppure davanti a un paesaggio si approcciava con arroganza o indelicatezza. Patty era dotata di un rispettoso sesto senso che sbalordiva. Era invisibile quando metteva a fuoco.
Era timida la Patty, molto timida. Quando fotografava la gente, non lo faceva mai furtivamente. Si presentava al soggetto porgendo una stretta di mano, accompagnato da un velo di rossore in volto. Non avrebbe mai scattato una fotografia senza questi preliminari. Patty era fatta così. Lo faceva anche con la natura: prima di fotografare un fiore, accarezzava i petali, poi li annusava. Per lei la fotografia era il punto di arrivo di un pensiero, la fine di un’esperienza raccontata in un centoventicinquesimo di secondo. Durante un viaggio nella valle dell’Omo, nel sud dell’Etiopia, Patty manifestò il desiderio di un contatto più intimo con l’Africa e la sua gente. Bramava di avvicinarsi alle persone, il più possibile. Aveva bisogno di un’unione profonda per esprimersi. Voleva pennellare le sue fotografie con i profumi, gli odori, la trasparenza dei pensieri altrui. Mi diceva spesso che lo stato d’animo e la grande emozione che si viene a creare durante determinate situazioni, una volta stampata la fotografia, sarebbero trasudate dall’emulsione della carta.
Aveva sensibilità la Patty: sapeva strappare sorrisi nella disperazione di uno slum di Calcutta, conquistare la simpatia di uno sconosciuto incontrato per caso in un caffè, creare la delicata intesa per illuminare gli occhi di una donna in chador. Patty, nella disperazione dei sud del mondo, sapeva dar luce alla vita. Fotografava con passione, con etica, con professionalità. A volte, sfoderava la sua sottile ironia per catturare sguardi ammiccanti, per comporre la sua personale umanità attraverso puzzle che lasciavano solamente intravedere. Nonostante i colori, mai fuori posto, le sue fotografie non hanno mai avuto una chiave di lettura diretta. Avevano, e hanno tuttora, la necessità di essere contemplate oltre il bordo del fotogramma. Dove finisce il puro piacere dell’estetica, dove iniziano le storie della vita di noi uomini del terzo millennio.
Nei luoghi infuocati della terra, quando il caldo del meriggio rendeva i movimenti del corpo pesanti e quasi impossibili, Patty, spinta dall’amore per la fotografia, dalla passione e dall’entusiasmo, continuava a cercare nuovi punti di vista. Non si arrendeva mai. Nessuno la poteva fermare. A volte, il suo saper cogliere l’invisibile agli occhi, mi ricordava Kapuściński in Ebano. Patty aveva anche la straordinaria capacità di raccogliere i colori del luogo, quasi per istinto. Un dono innato, come Mondrian, come Vasarely. Giocava con le cromie, le manipolava, ne diventava padrona, per poi metterle nell’essenzialità caleidoscopica dei suoi pensieri. A volte provava a essere sconnessa nella sue inquadrature, le piaceva questa idea di trasgressione visiva. Ma lei era rigorosa e disciplinata nella professione. E nella vita.
Patty era una cacciatrice di sorrisi: non metteva mai a fuoco il degrado, non era nelle sue corde usare il mezzo fotografico come strumento di denuncia. La sua missione artistica era quella di abbellire il mondo. Sbirciando tra i suoi appunti, che si era preparata per un viaggio in Myanmar, mi incuriosì una nota messa in evidenza sul suo quaderno di viaggio: «Pagoda di Mingun, fotografare monaco seduto». Per giorni, con la curiosità del bambino che c’era in me, attesi di arrivare in quel luogo sacro. Volevo scoprire cosa teneva in serbo la mia compagna di viaggio. Il bianco della pagoda, il blu del cielo, il rosso porpora dell’abito del monaco e la guglia dorata che dominava l’intera città reale: quattro colori, tutti in contrasto tra loro. Patty, nella sua mente, si era costruita la sua fotografia nell’immaginario di un luogo sconosciuto. Ancora prima di partire. Era fatta così, non affidava mai nulla al caso.
Capitava spesso di essere vicini durante le riprese fotografiche, ma mai fianco a fianco. Lei era sempre, per sua scelta, mezzo passo dietro di me. La vedevo con la coda dell’occhio, sempre. Mi sentivo protetto dalla sua ombra. Era il mio angelo custode. Capitava, a volte, che si allontanasse per immergersi nella sua solitudine. Per cercare qualcosa di intimo. Profondo. Mi divertivano queste sue brevi evasioni. Mi piaceva osservarla da lontano: la vedevo sempre con l’occhio incollato al mirino, non lo staccava mai. Cercava la luce nei dettagli delle sagome degli oggetti. A volte si rifugiava nei profumi dei fiori, poi li fotografava. Mi rendeva felice quando tornava, donandomi il suo sorriso. Non diceva mai nulla, faceva la preziosa. Come se volesse nascondermi il segreto della sua ultima fotografia.