Il Comitato di Dio
Un comitato ospedaliero ha un’ora di tempo per decidere a chi trapiantare il cuore tra i tre pazienti che ne hanno un bisogno vitale. Riuscirà l’operazione chirurgica? Il comitato, che autorizza l’intervento attraverso sofferte discussioni, ne porterà ancora le conseguenze morali e psicologiche (dubbi, rimorsi, rabbiose voglie di rivalsa) persino sette anni dopo, nel 2021. In parallelo, alcuni finanziatori (tra cui il padre di uno dei potenziali riceventi) commissionano una ricerca privata sugli xenotrapianti, con tessuti prelevati da animali. Siamo a New York City, in una struttura clinica di medie dimensioni (il St. Augustine’s Hospital, in seria difficoltà economica) nella quale fa la voce grossa un importante cardiochirurgo: il rude, amaro e ambizioso dottor Andre Boxer (interpretato dall’attore Kelsey Grammer), secondo cui «il cuore è solo un muscolo». Boxer è legato da un segreto e difficile rapporto sentimentale con una giovane e più empatica collega.
Come guardare il film The God Committee (Il Comitato di Dio, USA 2021) di Austin Stark? Come collegare le immagini più calde e accoglienti della prima parte con la fotografia più fredda e soffocante della seconda? Intanto occorre fare una premessa. Alcuni storici datano la nascita della bioetica a partire dall’istituzione a Seattle (USA), nello Swedish Hospital (siamo nel 1962), di una commissione (soprannominata Life or Death Committee, Commissione per la Vita o per la Morte) incaricata di scegliere i criteri per stilare le liste d’attesa dei candidati ai pochi apparecchi di dialisi disponibili. L’opinione pubblica si chiedeva chi dovesse avere la priorità. E i singoli esperti suggerivano risposte diverse: il paziente che aspettava da più tempo l’organo; chi ne aveva più bisogno per sopravvivere; chi ne avrebbe beneficiato per più tempo, chi poteva pagare in tutto o in parte le spese sanitarie grazie a un’assicurazione; chi non avrebbe messo a rischio l’operazione attraverso comportamenti disordinati, negligenti, asociali; chi aveva meriti sociali pregressi (soldati eroici, uomini di scienza) o chi sosteneva responsabilità pubbliche gravose (come una vedova con più figli).
Come si vede, non si tratta di domande semplicemente cliniche o biomediche, ma di questioni che fanno appello a determinate teorie della giustizia: egualitaristiche o utilitaristiche, liberistiche o solidaristiche, contrattualistiche o centrate sul bisogno. Ciascuna di queste teorie ha vantaggi e limiti, pregi e difetti. Perciò è utile applicarle a casi clinici concreti (reali o fittizi, come nella trama di un film) per individuare i criteri organizzativi specifici con cui prendere rapidamente decisioni difficili. Molti registi hanno narrato vicende di trapianti, mostrando quali criteri di scelta vengono assegnati ai computer, utilizzati dai responsabili di reparto e poi supervisionati in sedi scientifiche e politico-sanitarie. Forse per la prima volta disponiamo di un racconto per immagini che mette a tema (e nel contempo tratta da protagonista) proprio il comitato locale incaricato di scegliere il paziente da privilegiare come ricevente, un comitato che nel film cerca faticosamente una mediazione tra sensibilità differenti.
Anche se la pellicola non è un capolavoro in termini stilistici (scivola a tratti in un banale melodramma, in un thriller grottesco o nel solito contrappasso del sanitario che si ammala), e anche se la trama è inverosimile (occorre il permesso di organismi federali per eseguire trapianti negli USA), sono toccati alcuni punti delicati. In primo luogo, lo spettatore potrà domandarsi se questo God Committee (composto da medici, un’infermiera, un’amministrativa, uno psichiatra, un sacerdote esperto di diritto) rispetti i tre requisiti ritenuti generalmente necessari per un funzionamento corretto del gruppo di lavoro: pluralismo (cioè compresenza di più filosofie e visioni del mondo); interdisciplinarità (cioè rappresentanza di diverse figure professionali, tra cui assistenti sociali, esperti di etica, rappresentanti dei malati); indipendenza dall’istituzione (cioè distinzione chiara tra membri dirigenti dell’ospedale e studiosi esterni, che non hanno alcun interesse personale e sono immuni da interferenze e pressioni da parte dell’istituto che li nomina).
L’altro punto interessante riguarda i conflitti d’interesse nel mondo della ricerca biomedica. Influenze economiche, vantaggi di carriera, marketing istituzionale, legami affettivi, familiari, etnici o partitici spingono più o meno consapevolmente verso scelte controverse e, a volte, ambigue. Per evitare di scivolare in pregiudizi e discriminazioni, occorre che le strutture dichiarino pubblicamente in anticipo le procedure deliberative interne e che i singoli casi vengano analizzati sotto il profilo etico prima, durante e dopo averli affrontati. I pareri di un comitato d’etica dovrebbero essere trasparenti e discussi in opportune sedi allargate. Infine, sarebbe importante che consulenti professionali di bioetica «in camice bianco» verificassero le modalità concrete della comunicazione ai malati, i quali hanno il diritto di esprimere il loro consenso (o dissenso) libero, competente e informato a una proposta terapeutica.
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