Amoris laetitia: l’esigenza di una conversione pastorale
Alla chiusura del Sinodo ordinario del 2015 al n. 56 della Relatio finale si affermava: «La Chiesa non dimentica mai che il mistero pasquale è centrale nella Buona Notizia che annunciamo.(…) Questo lavoro richiede “una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno” (Evangelii Gaudium, n. 25)».
E il Papa, aprendo il capitolo VI di Amoris laetitia dedicato ad «alcune prospettive pastorali» in cui è suo desiderio mettere «che ci orientino a costruire famiglie solide e feconde secondo il piano di Dio» (n. 6), ribadisce: «I dialoghi del cammino sinodale hanno condotto a prospettare la necessità di sviluppare nuove vie pastorali» (n. 199). E continua: «Per questo si richiede a tutta la Chiesa una conversione missionaria: è necessario non fermarsi ad un annuncio meramente teorico e sganciato dai problemi reali delle persone» (n. 201).
Da dove iniziare questa conversione pastorale? E in che cosa consiste? Uno spunto interessante ci viene dal Papa stesso. Nell’intervista rilasciata in aereo tornando da Lesbo il 16 aprile scorso, dal momento che i giornalisti gli chiedevano se la Chiesa avesse espresso una «nuova» posizione dottrinale sui divorziati risposati in Amoris laetitia, ha risposto un po’ stizzito che la vera questione non è questa: «Quando convocai il primo Sinodo , la grande preoccupazione della maggioranza dei media era: “Potranno fare la comunione i divorziati risposati?”. E siccome io non sono santo, questo mi ha dato un po’ di fastidio, e anche un po’ di tristezza. Perché io penso: Ma quel mezzo che dice questo, questo, questo, non si accorge che quello non è il problema importante? Non si accorge che la famiglia, in tutto il mondo, è in crisi? E la famiglia è la base della società! Non si accorge che i giovani non vogliono sposarsi? Non si accorge che il calo di natalità in Europa fa piangere? Non si accorge che la mancanza di lavoro e che le possibilità di lavoro fanno sì che il papà e la mamma prendano due lavori e i bambini crescano da soli e non imparino a crescere in dialogo con il papà e la mamma? Questi sono i grandi problemi!».
Il Papa qui mette l’accento su un aspetto che a livello teologico-pastorale (nonché a livello mediatico) è stato un po’ sottovalutato, cioè la questione del senso delle scelte nella vita coniugale e familiare. Se pensiamo alla stagione post-conciliare con l’Humanae vitae e poi anche, secondo me almeno in parte, con il Magistero di Giovanni Paolo II, ci si è concentrati molto sull’affermare le norme della morale familiare e sul ribadire con forza la dottrina della Chiesa. Certamente questo aspetto rimane importante. E sappiamo che anche durante i due Sinodi questa era la spinta che veniva da molti padri sinodali. Ritengo, però, che oggi le domande delle persone – pensiamo ai giovani – rispetto a qualche decennio fa, non vadano tanto nella direzione del «che cosa si deve o non si deve fare», cioè del cosa è lecito o illecito.
Gli interrogativi etici ci sono ancora. Non è vero non ci sia interesse per la morale. A volte si sente dire: «Non c’è più morale», poi in realtà ogni dibattito finisce con una discussione sugli aspetti etici della vita. Ma bisogna riconoscere che la domanda morale e pastorale oggi, prima del «che cosa fare», è domanda del «perché fare». Proprio come dice il Papa.
Per cui, ad esempio, se si incontra un giovane, prima del che cosa fare/non fare nel comportamento sessuale, si capisce che bisogna chiarire che cos’è la sessualità, qual è il suo significato nel vissuto personale e interpersonale. E se si parla di matrimonio – quando oggi si fa fatica a decidere di sposarsi – bisogna ridirsi quali sono le buone ragioni per sposarsi. E ancora: è meglio il matrimonio senza amore o l'amore senza matrimonio? E poi: che senso ha continuare a stare insieme se una vita di coppia è divenuta insignificante o se l’amore non c’è più?
Atro esempio. Per anni i dibattiti teologico-morali e gli insegnamenti della Chiesa sono andati sulla norma inerente l’uso dei contraccettivi e i metodi regolativi della natalità, mentre oggi constatiamo un calo della natalità che fa impressione. E allora ci viene da dire che prima di ogni norma sulla contraccezione viene la questione del senso (significato) del generare una vita, cioè del perché oggi abbia senso mettere al mondo un figlio. Oppure: come discernere le condizioni favorevoli/ sfavorevoli per accogliere o no la vita in questa famiglia?
In sintesi, prima di ogni normativa morale (fedeltà, indissolubità, regolazione delle nascite, procreazione assistita…) viene il senso (significato) del matrimonio/famiglia, dal quale dipende tutta la morale.
Mi pare che ciò che innervosisce il Papa sia il fatto di essere stati un po’ ossessionati per la norma, che riduce il Vangelo a un farisaico «si può o non si può», che ne contraddice il senso.
Per questo da una parte bisogna fare «autocritica». E il Papa con coraggio dice: «Dobbiamo essere umili e realisti, per riconoscere che a volte il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane e il modo di trattare le persone hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo, per cui ci spetta una salutare reazione di autocritica. D’altra parte, spesso abbiamo presentato il matrimonio in modo tale che il suo fine unitivo, l’invito a crescere nell’amore e l’ideale di aiuto reciproco sono rimasti in ombra per un accento quasi esclusivo posto sul dovere della procreazione. Né abbiamo fatto un buon accompagnamento dei nuovi sposi nei loro primi anni, con proposte adatte ai loro orari, ai loro linguaggi, alle loro preoccupazioni più concrete. Altre volte abbiamo presentato un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, quasi artificiosamente costruito, lontano dalla situazione concreta e dalle effettive possibilità delle famiglie così come sono. Questa idealizzazione eccessiva, soprattutto quando non abbiamo risvegliato la fiducia nella grazia, non ha fatto sì che il matrimonio sia più desiderabile e attraente, ma tutto il contrario» (n. 36).
D’altra parte, però, poi bisogna ridare un senso alla dottrina: «Come cristiani non possiamo rinunciare a proporre il matrimonio allo scopo di non contraddire la sensibilità attuale, per essere alla moda, o per sentimenti di inferiorità di fronte al degrado morale e umano. Staremmo privando il mondo dei valori che possiamo e dobbiamo offrire. Certo, non ha senso fermarsi a una denuncia retorica dei mali attuali, come se con ciò potessimo cambiare qualcosa. Neppure serve pretendere di imporre norme con la forza dell’autorità. Ci è chiesto uno sforzo più responsabile e generoso, che consiste nel presentare le ragioni e le motivazioni per optare in favore del matrimonio e della famiglia, così che le persone siano più disposte a rispondere alla grazia che Dio offre loro» (n 35).
E ancora: «Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle» (n. 37).
Dunque, in Amoris laetitia si coglie e afferma una cosa fondamentale: il perché fare viene prima, e non solo in ordine di tempo, rispetto al cosa fare. «Se vuoi costruire un’imbarcazione, non preoccuparti tanto di adunare uomini per raccogliere legname, preparare attrezzi, affidare incarichi e distribuire lavoro, vedi piuttosto di risvegliare in loro la nostalgia del mare e della sua sconfinata grandezza» (Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella).