Tutti nati nello stesso giorno
«Ho seguito con interesse la cronaca dell’incontro che papa Francesco ha avuto di recente con le persone disabili a San Pietro, in occasione del Giubileo. Chi le sta scrivendo è la mamma di una di queste: Luca, affetto da sindrome di Down. Ho visto tanta gioia in quell’incontro, ho sentito tanta verità nelle parole di papa Francesco (l’amore offerto a questi figli, che torna indietro centuplicato) e ho avvertito tanto rispetto in chi ha pensato così quella giornata (per esempio con il Vangelo che è stato anche “recitato” affinché fosse compreso dai disabili intellettivi), ma avrei voluto anche qualche parola di comprensione per chi non riesce a occuparsi, pur volendolo, dei propri cari disabili. Mille possono essere i motivi. Nel mio caso, per esempio, i limiti derivanti dall’età: non ce la faccio più a star dietro a Luca, non ho più le energie. Sto cercando, mio malgrado, un posto che possa accoglierlo, ma non trovo nulla. E ormai non ci dormo più la notte: quando non ce la farò proprio più a seguirlo, che cosa ne sarà di noi, di lui?». Lettera firmata
Dobbiamo riconoscere che non era scontato, in questi anni, cercare di ridare visibilità agli uomini e alle donne affetti da sindrome di Down o con disabilità fisiche o mentali di altro tipo: trovare spazio per loro nelle nostre politiche sociali, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei progetti pastorali. Insomma, nelle nostre teste e nei nostri cuori. Non era scontato perché abbiamo dovuto imparare a non considerarci nessuno il centro del mondo, tanto meno il metro di paragone assoluto per discriminare chi è abile e chi no.
Abbiamo dovuto ritarare la misura con cui indicavamo chi era pienamente umano e chi di meno, che di fatto dipendeva dal saper fare, dall’essere fisicamente efficienti e razionali. Abbiamo scoperto che ci sono vari «saperi», che neanche noi possediamo tutte le abilità. Persino che neppure noi siamo poi così perfetti e integri, anche nel corpo. Per rivalutare, infine, che sia noi che loro, tutti ugualmente figli e figlie dello stesso Dio, siamo belli e degni indipendentemente da tutto ciò: da quello che sappiamo o no fare, dal corpo palestrato o contorto su una carrozzella.
E, bisogna dirlo, esserne consapevoli fa bene non solo a loro, ma anche a noi, rende ragione di loro, ma anche di noi. Loro, le persone che con pigrizia abbiamo per tanto tempo definito «handicappate», non sono figlie di un fantomatico ottavo giorno: sono nate nello stesso giorno in cui siamo stati creati tutti noi. Perché non è sulle nostre presunte abilità che per ammanco definiscono se stessi, «diversamente abili», ma sull’essere tutti ugualmente abili e limitati, ognuno a proprio modo, ognuno risorsa originale e irripetibile per tutti gli altri.
Tutto ciò, però, oltre che poesia è anche fatica quotidiana. Non solo di tanti bravi operatori, volontari, suore, a cui va il nostro grazie. Ma soprattutto di mamme e papà, che io farei subito santi. Allora è tempo di dare visibilità anche a loro: a chi, nel silenzio, senza riconoscimenti, ricominciando ogni mattina, competente solo per il proprio amore e dedizione, ha donato la propria vita al figlio più malato e bisognoso di attenzioni e affetto. Genitori che, come tutti i genitori, si preoccupano del «dopo di noi», semmai con qualche apprensione comprensibile in più.
Con inaspettata ma felice coincidenza, se il 12 giugno scorso papa Francesco incontrava le persone disabili per il loro Giubileo, festa a cui accenna la nostra lettrice, due giorni dopo la Camera ha approvato definitivamente la cosiddetta legge sul «dopo di noi». Da una parte abbiamo assistito con emozione a una solenne liturgia resa comprensibile anche a chi deve fare i conti con qualche limite psicofisico; dall’altra all’impegno della società civile a mettere a disposizione risorse economiche, strutturali, logistiche, progettuali, ai genitori che desiderano, giustamente, un futuro bello per i loro figli. Be’, mi sembrano proprio dei bei segni…