Berengo Gardin: «Il mio racconto per immagini»

Da quasi settant’anni Gardin documenta la vita spaziando dai paesaggi alle feste popolari, fino alle realtà emarginate. Faccia a faccia con una leggenda della fotografia che non ha mai perso la passione degli inizi.
15 Dicembre 2020 | di

Sebastião Salgado, suo grande amico, lo definisce «il fotografo dell’uomo», mentre Ferdinando Scianna richiama il titolo di uno dei suoi 250 e più libri, L’occhio come mestiere, «perfetto ritratto per tutta la sua vita». «Per me la fotografia ha sempre avuto il valore di documento, e ho cercato di esplorare le storie e le vite delle persone. Con un approccio da artigiano, non da artista» è il «manifesto» di Gianni Berengo Gardin, patriarca e leone della fotografia italiana. Autore prolifico e straordinario, lo scorso ottobre ha compiuto 90 anni, regalandosi un’autobiografia per immagini, In parole povere, raccolta dalla figlia Susanna e pubblicata da Contrasto.

Da quasi settant’anni GBG (come amano chiamarlo gli appassionati di fotografia) racconta la nostra vita: per il Touring Club ha attraversato l’Italia da Nord a Sud, ha spaziato dall’architettura alle feste popolari, dalle processioni religiose ai carnevali, è stato tra i protagonisti de «Il Mondo» di Mario Pannunzio, è entrato nelle fabbriche come l’Olivetti o l’Alfa Romeo per immergersi Dentro il lavoro, ha testimoniato la condizione di emarginati e zingari, e il reportage che realizzò negli istituti psichiatrici degli anni Sessanta – dove la vita era tanto dura e disumana da Morire di classe – aiutò Franco Basaglia nella battaglia per la chiusura dei manicomi.

Nato («per caso», dice lui) a Santa Margherita Ligure, dove la mamma dirigeva uno storico hotel, Berengo Gardin ha viaggiato tanto e l’obiettivo della sua Leica ha catturato angoli ed emozioni nascoste, tanti «attimi decisivi», per usare le parole di Henri Cartier-Bresson a cui è stato spesso affiancato: ma il suo cuore è rimasto sempre nella sua Venezia, dove in questi anni ha appoggiato anche la battaglia contro le grandi navi che mettono a rischio l’equilibrio fragile della splendida città lagunare. E proprio a Venezia sono nati alcuni dei suoi scatti iconici, come In vaporetto del 1960, quasi surreale nei suoi riflessi, o il romantico bacio di due amanti nell’infilata prospettica dei portici di piazza San Marco, del 1959.

Msa. Ricorda quando scattò le prime foto?
Berengo Gardin. Avevo 13 o 14 anni, e con la famiglia ci eravamo trasferiti a Roma. I tedeschi avevano ordinato di consegnare anche le macchine fotografiche, e la mamma così mi diede la sua vecchia Ica Halloh da portare al commissariato di quartiere. Io invece andai in giro per la città a scattare fotografie: pensai che, se i tedeschi non volevano che si usassero le macchine fotografiche, esse dovessero essere degli strumenti molto potenti. Sono sempre stato un bastian contrario.

La sua formazione fotografica poi è avvenuta a Venezia...
E prima ancora a Parigi, dove andai nel 1953: al mattino lavoravo in un hotel, mentre al pomeriggio e alla sera avevo il tempo per dedicarmi alla fotografia. A Parigi ho conosciuto anche Robert Doisneau, Édouart Boubat, e soprattutto Willy Ronis, che considero il mio principale mae­stro. Là ho incontrato anche Jean Paul Sartre e scoprii che condividevamo la passione per i romanzi di Hemingway e per il cinema: mi invitò spesso ad andare a vedere in sua compagnia dei film western che gli piacevano moltissimo, ma forse non voleva farlo sapere. 

Quindi anche la lettura è stata importante per lei?
Sì, Faulkner, Steinbeck, Dos Passos e, appunto, Hemingway mi hanno aperto la mente. Forse è per questo che talora mi sento anch’io un narratore: anche io ho raccontato quello che ho visto. Mi sarebbe piaciuto fare lo scrittore, ma ho preferito scrivere con le immagini.

Il reportage è stato sempre il suo ambito prediletto. Perché?
Ho ammirato da subito il lavoro dei fotografi di «Life» e degli americani della Farm Security Administration, le foto di Dorothea Lange e di Robert Capa. Mi ha sempre interessato il lato umano, il lato sociale, entrare negli ambienti, nelle case, nelle officine.

Sempre in bianco e nero...
Perché io sono nato col bianco e nero, e tutti i miei maestri erano fotografi che adottavano perlopiù il bianco e nero. Quando ero agli esordi, il cinema era tutto in bianco e nero, la tv anche. Lo considero molto più efficace per il mio genere di fotografie: il colore distrae, mentre il bianco e nero mantiene la concentrazione sul soggetto.

Sul retro delle sue stampe, non manca mai il suo ormai famoso timbro verde, con la scritta «Vera fotografia». Che cosa vuole rimarcare?
Io fotografo ancora con pellicola e quello che io vedo è registrato. Con il digitale, è facile essere portati a «taroccare» le fotografie con il computer, ad esempio per levare o aggiungere un dettaglio, un palo, togliere una barca, cancellare una ruga a una persona. Ma queste elaborazioni, a mio parere, non sono più foto.

E che cosa sono, allora?
Sono immagini, non fotografie. Mi può stare bene, purché venga dichiarato che la foto originale è stata ritoccata: altrimenti mi illudo di vedere quello che ha visto il fotografo, e non è così.

Si è mai lasciato tentare dal digitale?
Il Dna della fotografia è il negativo, non il digitale, e non ho mai rinnegato questa mia «religione». Magari il digitale può essere più comodo professionalmente, come nella foto pubblicitaria, ma con i decenni cambieranno gli strumenti di lavoro e i programmi, e forse alcune foto scattate oggi in digitale non si riusciranno più a «leggere». C’è davvero il rischio della sparizione di interi archivi, che sono un pezzo di storia.

Nel suo archivio, quante foto ha raccolto?
Credo di avere circa due milioni di scatti: foto buone o cattive, di tutti i tipi. Belle ce ne sono tante, buone forse un po’ meno.

Ma qual è la differenza tra una foto bella e una foto buona? Non sono la stessa cosa?
Uliano Lucas mi spiegò che c’è un’enorme differenza. Una foto può essere molto bella esteticamente, ben composta e ben riuscita, eppure magari non riesce a comunicare qualcosa. Una foto buona è capace di raccontare e di consegnare un contenuto, anche se può non essere perfetta.

E come si realizza una foto buona?
Spesso con un colpo di fortuna. Molte volte nei reportage uno scatto non dipende dal fotografo, ma da coloro che vengono ritratti: sono loro che fanno la fotografia. Il fotografo ha soltanto la capacità di fermare quell’attimo preciso. 

Di frequente lei ha fotografato degli innamorati, e nelle sue mostre compaiono lunghe sequenze di baci. Perché?
Quando partii per Parigi, negli anni ’50, in Italia era ancora proibito baciarsi per strada: si rischiava di essere denunciati per oltraggio al pudore. Invece in Francia rimasi colpito dal fatto che tutti si scambiavano baci e abbracci appassionati, così, liberamente. Allora ho cominciato a fotografarli e non ho mai smesso. Nel bacio vedo un emblema di libertà.

Tuttavia lei non ama scattare foto di famiglia...
Sì, è vero, non mi piacciono le foto-ricordo personali, e ho pochissime foto dei miei figli o dei familiari. Forse perché intendo ancora la fotografia come un lavoro, non un passatempo. Non sopporto poi le foto scattate con gli smartphone: il telefono serve per telefonare, e basta.

Qual è il segreto di una carriera così lunga e generosa?
Continuare sempre a fotografare con lo spirito del dilettante, del fotoamatore: è la passione di quando hai cominciato, che non è cambiata anche se sei diventato professionista. Ed è indispensabile per fare delle buone fotografie.

 

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Data di aggiornamento: 15 Dicembre 2020
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