Chi si ferma è perduto
Sin da quasi subito mi è stato evidente che non bastava essere iscritti nell’anagrafe battesimale. Il mio bel nome lì, accanto a quelli di papà, mamma, padrino e madrina, non garantiva di per sé proprio nulla.
Sono stati sufficienti i primi battesimi celebrati come parroco per essere persino (direi anche «finalmente», dopo tanti anni di onorata professione di fede cristiana) aggredito dalla forza delle parole che si pronunciano in quei momenti, anche banalmente da quelle previste dal rito. Parole più consone e adatte a un commiato, il saluto beneaugurante a un pellegrino che partirà per santuari lontani e che lungo la strada incontrerà innumerevoli motivi o scuse per tornare indietro, fermarsi, arrendersi o lasciarci la vita. Che non un pacchetto vacanze all inclusive in qualche rassicurante villaggio turistico.
È un impegno, almeno tanto quanto un dato di fatto. È un diario che riporta però solo l’incipit (forse anche un abbozzo di finale), il resto lo scriveremo noi giorno per giorno, ogni pagina preview, anticipo di quel che sarà infine.
Oltre che rammarico, è nostalgia per ciò che ancora non siamo. È che ci dovrebbe sorprendere non che noi si sia così diversi o lontani da com’erano effettivamente i primi cristiani. Al contrario, che ci si sia fatti un dovere o almeno un impegno di essere fedeli a quel nostro passato, nonostante non ci riusciamo.
Pensiamo, come chi accusa di tradimento la Chiesa, che quella manciata di anni in cui Gesù predicò in Galilea e poi morì a Gerusalemme rappresentino il momento della nostra verità assoluta, dopo la quale le cose non potevano che peggiorare. Riconosciamo la superiorità di quelle origini e cerchiamo di farvi ritorno come se la verità si trovasse là, come se la parte migliore dell’adulto stesse in ciò che è sopravvissuto del bambino.
Ci insegnano, correttamente, che in quel primo fondamentale sacramento Dio ci dona la vita cristiana. Ma forse scordiamo ch’essa non è altro dalla nostra stessa vita umana. Non è un triste soprammobile, da spolverare nelle grandi occasioni ma che inesorabilmente farà la fine di tanti altri oggetti simili condannati all’oblio seppur con un po’ di sensi di colpa: piano piano scivolerà sempre più verso… il bidone della spazzatura o una qualche vecchia scatola in soffitta.
È vivere la nostra vita quotidiana da cristiani, con lo stile di Gesù! Perché «credere è il punto più concreto dell’uomo» (Franco Matacotta). Scriveva Karl Barth, un grande teologo protestante morto ormai quasi cinquant’anni fa, che «Dio ha bisogno di uomini, non di esseri rumorosi, parolai. Dei cani egli cerca, che coi loro nasi si immergano a fondo nell’Oggi, e qui sentano il profumo dell’Eternità»!
Per nascere bastano nove mesi, ma per vivere non è sufficiente a volte neppure un’intera vita. Così, per dire «io sono un cristiano» ci vuole un’intera esistenza e un’esperienza di fallimenti continui, di tentativi, di desideri e passioni. Ci vuole la fedeltà al passo dopo passo: la linea dell’orizzonte, di adesione ma anche culturale, che si sposta sempre più in là man mano che avanziamo nei nostri anni. «Cristiani non si nasce ma si diventa», diceva già un antico padre della Chiesa, Tertulliano. E il cammino quaresimale arriva a proposito a rammentarcelo.
Parrà aleatorio e poco fondato, ma questa è anche la possibile risposta alla domanda di per sé maledettamente seria sul male nel mondo: perché Dio non fa qualcosa? In realtà qualcosa ha fatto. Ha fatto noi. Una risposta probabilmente da aggiustare strada facendo, senz’altro sempre parziale e a rischio di incomprensibilità. Ma l’unica che Dio mette nelle nostre mani e piedi.