Cinquant’anni, tra crisi e grazia
Provate a farlo, solo per curiosità. Digitate su un qualsiasi motore di ricerca online le parole «cinquanta» e «anni». Sarete sommersi da un’infinità di siti che vogliono spiegarvi come i 50 anni siano solo l’inizio della vita, una fase del tempo in cui potete fare di tutto e di più, in cui nulla è precluso. E poi una marea di consigli su come apparire giovani e attraenti, su come nutrirsi, muoversi, su quale atteggiamento mentale tenere per non considerarsi non solo vecchi ma nemmeno alle soglie della vecchiaia. Qualcuno addirittura mette in guardia dal non cadere nella sindrome «dell’ormai», quella per cui ormai, appunto, si è troppo vecchi per fare un sacco di cose. Una tristezza infinita, insomma, che rasenta la pateticità. Perché se è vero che i 50 anni di oggi non sono più quelli di 30 o 40 anni fa è anche vero che rappresentano comunque un giro di boa importante, la soglia verso la vecchiaia. Intendiamoci: a 50 anni il mondo non è finito, tante cose ci sono ancora da fare e da vivere, ma per farle bene bisogna pensarsi come persone che hanno già vissuto un bel pezzo di vita e che iniziano a intravedere il traguardo verso cui siamo tutti incamminati. Bisogna, in definitiva, essere consapevoli della propria età e di ciò che essa significa.
Lo diceva Jung
Il grande psicanalista Carl Gustav Jung ha dedicato molte delle sue riflessioni all’età adulta, individuando una serie di questioni con cui l’essere umano maturo è chiamato a fare i conti. Ciascun uomo, diceva Jung, a livello di psiche è formato da un «Io» cosciente che altro non è che il centro del suo agire e del suo giudicare, una parte che nella prima metà della vita deve essere rafforzata per poter trovare il proprio posto nel mondo e potersi costruire una personalità solida. Ma per rafforzare l’«Io», l’essere umano giovane inevitabilmente trascura molte altre caratteristiche della sua personalità, che Jung chiamava «ombra»: tutte quelle caratteristiche psichiche che compongono la parte più profonda di un essere umano. Se, quindi, nella prima parte della vita l’uomo, intento ad affermare se stesso, è proiettato all’esterno concentrandosi sulla parte più superficiale del proprio essere, nella seconda è chiamato a integrare nel proprio vissuto questa parte più nascosta di se stesso, il proprio «Sé» potremmo dire, per poter sviluppare appieno la propria umanità e divenire il più possibile un essere non frammentato. E questa seconda parte di vita corrisponde proprio all’età di mezzo, tra i 45 (anche se all’epoca di Jung si parlava di 35…) e i 55 anni.
Il monaco benedettino Anselm Grun, nel suo libro 40 anni. Età di crisi o tempo di grazia? (Emp, 2004) così spiega la necessità di questo passaggio che oggi, a distanza di vent’anni, si è spostato avanti di un decennio: «La vita umana si può paragonare al corso del sole. Al mattino sorge e illumina il mondo. A mezzogiorno raggiunge il punto più alto e poi comincia a diminuire i suoi raggi e a tramontare. Il pomeriggio è importante tanto quanto il mattino. Ma segue delle leggi proprio diverse. Per l’uomo ciò significa che deve riconoscere la curva della propria vita, che invece di stare attento alla realtà esterna, a partire dalla mezza età deve rivolgere la sua attenzione alla propria realtà interiore. Al posto dell’espansione viene richiesta ora la riduzione all’essenziale; si deve percorrere il cammino verso l’interno di se stessi, si esige l’introversione». Come a dire che ciò che l’uomo giovane trovava al di fuori di sé, l’uomo del pomeriggio deve trovarlo dentro di sé.Ma questo cambiamento di punto di vista dal fuori al dentro non è semplice né automatico. Anzi, spesso porta con sé delle vere e proprie crisi di mezza età che rendono la persona insicura, disorientata, meno equilibrata. Nulla di grave, anzi: lo squilibrio è funzionale alla ricostruzione di un nuovo equilibrio in cui integrare armonicamente le parti di sé di cui abbiamo appena detto. Ma resta il fatto che se non ci si prepara a questa eventualità si rischiano piccole o grandi catastrofi: dall’aggrapparsi spasmodicamente alla giovinezza perduta (con tutto ciò che questo comporta sia in termini di ricerca del mito dell’eterna giovinezza sia del restare rigidamente fermi e ancorati al proprio ruolo sociale) al totale rifiuto della vita fino a quel momento vissuta (e qui, per esempio, ecco che si mollano lavori all’improvviso, si disfano matrimoni o si rinnegano vocazioni…).
Nel mezzo del cammin
Ve lo ricordate l’inizio della Divina Commedia? «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la diritta via era smarrita». Una descrizione puntuale, secondo una moderna lettura psicologica, della crisi di mezza età. Dante all’epoca aveva 35 anni (età paragonabile agli attuali 50/55) e non si riconosceva più. Ciò che fino a quel momento era stata la sua esistenza («la diritta via») era scomparsa e lui non sapeva più che fare se non, appunto, mettersi in cammino per ritrovare in qualche modo il se stesso perduto. Fu dunque costretto a compiere un lungo e difficile percorso interiore che lo avrebbe portato a confrontarsi con le proprie ombre, le parti di sé più recondite e segrete e a volte anche spaventose. Solo mettendo insieme, con fatica, tutte le dimensioni del suo sé, accettando il buono che aveva realizzato e perdonandosi per ciò che invece non era riuscito a fare o aveva sbagliato, avrebbe infine ritrovato la strada della propria esistenza e sarebbe riuscito a «riveder le stelle» cioè a godere ancora della bellezza della vita.
I 50 anni di oggi, dunque, corrispondono a quella che gli psicologi chiamano la «seconda età adulta», momento centrale della vita «in cui vengono raggiunti obiettivi esistenziali e uno stato di maggiore e più profonda consapevolezza», sottolinea Lodovico Berra, psichiatra e psicoterapeuta, nel numero speciale della rivista «Dasein» dedicato proprio alle Età della vita, riprendendo il titolo di un famoso libro di Romano Guardini. La consapevolezza di chi comincia ad avere ben chiaro che il tempo che ha davanti è minore di ciò che ha alle spalle, che non sempre la vita ha donato ciò che aveva promesso in gioventù, che anche in sé vi sono profonde contraddizioni e che i limiti, fisici e psichici, cominciano a farsi sentire. Ma, proprio come il Sommo poeta, anche l’uomo di oggi è chiamato a mettersi in cammino all’interno di sé per gettare le basi di una seconda vita i cui punti di riferimento diverranno fondamentali man mano che l’età avanzerà.
Non si tratta quindi di uno stop che la vita pone, ma della necessità di un indubbio cambio di marcia. «La vita – spiega ancora Lodovico Berra – può essere intesa come un continuo processo di crescita che non raggiunge mai un culmine, ma tende a salire costantemente». Il problema, secondo lo psichiatra, è quello di non riuscire a distaccarsi da un modello sociale secondo il quale la vita umana ha un’ascesa, uno zenith – cioè un punto di massima altezza – e un declino. «In genere – prosegue l’esperto – la nostra visione è condizionata dal porre al centro prestazioni, efficienza, velocità, ma se modifichiamo i criteri di valutazione e li spostiamo verso qualità quali esperienza, saggezza, consapevolezza, ecco che la prospettiva di crescita-declino si trasforma in uno stato di evoluzione continua». Anche «l’indebolimento del corpo potrebbe nascondere l’esigenza di portare la vita dell’essere umano a un livello più spirituale, il bisogno di spostare l’attenzione da una dimensione esteriore e superficiale a una più profonda e interiore». Paradossalmente, questa «crisi dell’età di mezzo», pare essere più profonda negli uomini che nelle donne. O meglio, viene avvertita come tale in quanto da sempre l’uomo è vittima di stereotipi che lo vorrebbero eternamente vincente, forte, indistruttibile e che gli provocano una maggiore fatica ad accettare i cambiamenti legati all’età, dai quali spesso fugge con atteggiamenti giovanilistici. Per le donne è diverso, ma non perché per loro invecchiare sia più facile. È la natura a metterle dinanzi ai cambiamenti fisici legati, per esempio, alla menopausa e dai quali non possono sfuggire, nemmeno volendo.
Età di grazia
In tutto questo, però, noi esseri umani abbiamo un grande, e per molti versi insospettabile, alleato. La storia, infatti, insegna che ciò che in passato educava a solcare bene la porta della vecchiaia erano le religioni, le uniche in grado di preparare gli esseri umani al mistero di tale età. A sottolineare come la seconda parte della vita abbia molto a che fare con la fede è don Armando Matteo, segretario per la sezione dottrinale del Dicastero per la dottrina della fede, che di criticità legate alle varie fasi della vita si è sempre occupato, come dimostrano i titoli di alcuni dei suoi libri: L’adulto che ci manca, Cittadella, 2014; Tutti muoiono troppo giovani. Come la longevità sta cambiando la nostra vita e la nostra fede, Rubbettino, 2016; Convertire Peter Pan. Il destino della fede nella società dell’eterna giovinezza, Àncora, 2021. «Stiamo vivendo – spiega – una stagione di grande crisi di maturità. Il titolo di un bel volume di qualche anno fa, scritto da Francesco Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo (Einaudi, 2004), rende bene la condizione di quei Peter Pan che faticano a compiere il cammino interiore che in genere si affianca a quello della crescita biologica». «Il motivo di tutto ciò – prosegue il sacerdote – è legato a un altro fenomeno di massa, la longevità, che ha allungato proprio la fase adulta della vita. Oggi, a 50 anni si vive meglio di un tempo e le persone stanno assolutizzando questa condizione e decidono di non voler perdere neppure una goccia delle possibilità di godimento offerte da questa nuova era».
Se dunque, fino a qualche decennio fa l’età adulta era l’età dei doveri e della responsabilità, oggi questi termini sembrano essere scomparsi dall’orizzonte personale o collettivo. «Intendiamoci: le possibilità che il tempo di oggi ci offre sono una buona cosa – sottolinea don Armando Matteo –, ma dobbiamo imparare a gestirle bene, pena il mettere a rischio il carattere generativo tipico dell’età adulta. Non dobbiamo mai dimenticare che quest’ultima (che, a livello sociologico, in Europa inizierebbe con i 35 anni) è il momento in cui brilla la stella dell’umanità, il momento in cui la nostra specie dà il meglio di se stessa. La “generatività” di noi adulti si traduce proprio con l’avere cura che la vita continui anche attraverso di noi e dopo di noi, aprendoci all’impegno di dare figli al mondo e di dare il mondo ai figli. È il momento dell’esistenza in cui l’aspetto educativo raggiunge il suo culmine, in cui si lavora sui “cuccioli” per permettere loro di abitare questo mondo e di dare vita ad altra vita, portando avanti il fiume delle generazioni». Ed è proprio questo aver cura che la vita continui che ha in realtà molto a che fare con la dimensione religiosa. «Il compito della Chiesa – sottolinea a riguardo Matteo – è, alla resa dei conti, quello di permettere alle persone di incontrarsi con Gesù, ma tale incontro non accade se non attraverso persone che a loro volta lo hanno incontrato. Non a caso papa Francesco, nell’esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit (n. 182), mette in guardia dal culto nefasto della giovinezza, che non solo allontana gli esseri umani da se stessi e dalla vera fede, ma li allontana anche tra di loro. Nella nostra società, infatti, i giovani veri sono marginalizzati, perché gli adulti entrano in competizione con loro. E sono marginalizzati pure gli anziani, che ci ricordano il nostro invecchiamento e hanno la grande “colpa” di non essere riusciti a restare giovani».
«Quando si incontra Gesù – conclude don Armando Matteo –, le cose cambiano, perché si viene immediatamente rinviati agli altri. Scopriamo allora che la vera domanda che illumina fino in fondo il mistero della vita, non è: “Chi sono io?”, ma “Per chi sono io?”. In altri termini: “Che cosa posso dare io al mondo, alla famiglia, agli altri?”. Ecco, incontrare Gesù significa allora avere una vita di fede fatta di partecipazione alla comunità, di confronto con la parola Dio, con la preghiera, elementi che ci liberano da quegli incantesimi che la ragione commerciale oggi getta ai nostri piedi. Grazie alla fede possiamo davvero capire che “c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E l’adulto che comprende questa verità diventa veramente felice, diventa pienamente se stesso, può vivere davvero la sua età». La conferma, di nuovo insospettabile, arriva da Carl Gustav Jung, il quale sottolinea come le religioni incamminino bene l’essere umano verso la vecchiaia, perché sono le uniche a condurlo oltre «l’affermazione di se stesso nel mondo», facendolo entrare in un nuovo ambito in cui l’uomo diventa veramente uomo. Tra i suoi pazienti, diceva, «le persone che si erano incontrate con se stesse, erano state capaci non solo di accettare se stesse, ma anche di riconciliarsi con il proprio Sé e in tal modo avevano avuto anche la possibilità di rappacificarsi con situazioni e circostanze avverse. Il che è quasi identico a ciò che un tempo veniva espresso con le parole: “Ha fatto pace con Dio, ha offerto il sacrificio della sua volontà, sottomettendosi alla volontà di Dio».
Come Cristo...
Volendo dirla con le parole del monaco Grün – che, da benedettino, di spiritualità se ne intende –, tutto ciò equivarrebbe a uniformarsi al cammino di Cristo: «Come Cristo, morendo, discese agli inferi, così anche l’uomo deve passare nella notte dell’inconscio, deve portare a termine il viaggio negli inferi per incontrare il proprio sé e per essere rigenerato a vita nuova dalla forza dell’inconscio». E dunque non esiste rinascita spirituale, che è il compito che spetta alla seconda metà della vita umana, senza «devozione o pietà, cioè senza la prontezza di rivolgersi verso l’interno di se stessi, per mettersi all’ascolto di quel Dio che è presente dentro di noi».
Crisi: come affrontarla?
Fermo restando quanto sottolineato nell’articolo principale, ci sono dei semplici consigli che possono aiutare ad affrontare e a vivere bene la crisi legata alla mezza età. Punti di vista «altri», che aiutano il cambiamento pur nella continuità.
Relazioni sociali. L’indebolimento del corpo, unito alla diminuzione delle forze fisiche, fanno sì che spesso attorno ai 50 anni si riducano le relazioni sociali. Il che di per sé non è un male, purché si tenga presente il vecchio adagio: «Poche, ma buone». È fondamentale, infatti, mantenere aperta la possibilità di un confronto, sia con persone della propria età, sia con le generazioni più giovani, che possono fungere da pungolo per mantenersi attivi. È in questa fase di vita che bisogna imparare un’attitudine che si rivelerà sempre più preziosa man mano che il tempo andrà avanti: considerare che ogni giorno è una vita intera, e va vissuto pienamente con la giusta dose di vitalità e spirito d’iniziativa.
Curiosità. Altra scintilla da non spegnere per vivere bene questa fase della vita è la curiosità. Bisogna mantenere vivo l’interesse per ciò che accade, per ciò che ci circonda, per le persone e gli eventi, aspetto fondamentale anche per cercare di mantenere in attività la mente e contrastarne il decadimento troppo repentino. Intendiamoci, il decadimento è inevitabile: a partire dai 35 anni, infatti, gli scienziati ci dicono che il cervello comincia a perdere cellule e le sinapsi (cioè i «collegamenti» tra le cellule nervose) diminuiscono di numero. Eppure gli esperti vedono del buono anche in questo: se i giovani, infatti, hanno, grazie ai molti neuroni e alle numerose sinapsi, una capacità mnemonica quasi inesauribile, è altrettanto vero che essa pare poco organizzata; con l’età che avanza, invece, è come se si realizzasse una sorta di «selezione naturale» che può essere letta anche come una perdita delle cose in eccesso, per mantenere gli aspetti più utili. Insomma, anche in questo caso la natura viene a dirci che l’età di mezzo è il momento in cui eliminare il superfluo a favore di ciò che è essenziale.
Lavorare su se stessi. Bisogna, poi, non stancarsi mai di lavorare su se stessi. La vita non è «andata», a 50 anni, è solo diversa e molte sono le cose che ancora si possono imparare su di sé, su come funzioniamo, su ciò che portiamo davvero in cuore. E questo richiede tempo. I 50 anni non sono l’età della fretta, non sono la fase in cui «recuperare» il tempo perduto girando come trottole alla ricerca delle varie possibilità che negli anni non abbiamo vissuto, per scelta o per necessità. Meglio «trivellare» la propria vita, andandoci a fondo, piuttosto che correre in avanti.
No ai rimpianti. Infine, un’ultima accortezza, banale forse, ma importantissima: attenzione ai rimpianti. E qui è ancora la vecchia e cara saggezza popolare a venire in nostro aiuto, ricordando di non farci ingannare dal rimpianto o dalla nostalgia di ciò che poteva essere: non poteva essere nient’altro, altrimenti lo sarebbe stato.
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