Cuba, piccolo grande Paese
«Abbiamo imparato ad amarti sulla storica altura, dove il sole del coraggio ha posto un confine alla morte. Qui rimane la chiara, penetrante trasparenza della tua cara presenza. Comandante Che Guevara». Hasta siempre, Comandante è il titolo della canzone contenente questo gruppo di versi, scritta e cantata dal compositore cubano Carlos Puebla. In una notte del 1965, dopo il discorso di Fidel Castro che annunciava la partenza da Cuba, e la relativa uscita dal governo di Che Guevara, Puebla compose questa opera sostenuto dall’emozione e dall’amore che nutriva per il Che.
Questa struggente musica, basata sulle note del tradizionale son cubano (genere musicale e ballo di coppia originario di Cuba, ndr), aleggia ovunque nell’aria dell’isola caraibica. Da L’Avana a Baracoa, da Santiago a Santa Clara. Nella lastricata Plaza Mayor di Trinidad, tra gli edifici colorati di Camaguey. Agli angoli delle strade, nei ristoranti, nei bar, lungo il Malecon. C’è sempre qualche cantore con una chitarra tra le mani che la strimpella. Inevitabilmente la si respira. Ovunque. È il sentimento, il dispiacere dei cubani, per la partenza del Che.
Cuba non è un luogo qualunque. Cuba è un piccolo Paese che ha resistito a cinquant’anni d’embargo e a tentativi di invasione da parte degli Stati Uniti. Un crimine enorme e brutale che ha messo in ginocchio l’intera popolazione cubana per decenni. In tutti questi anni il Paese è stato sostenuto quasi totalmente dall’Unione Sovietica, fino al crollo del Muro di Berlino, quando l’alleanza si è sciolta.
«El período especial»
Dal 1991 Cuba iniziò a sprofondare in una grande crisi economica: «El período especial», fu chiamata così quell’epoca in cui la gente non aveva mai nulla da mettere sotto i denti. Per poter sfamare la famiglia, il popolo cubano si doveva arrangiare quotidianamente come meglio poteva. È stata una crisi indelebile che ha segnato l’intera società di quel periodo. Nonostante la profonda recessione, il sistema sanitario è sempre stato gratuito. Lo Stato ha sempre garantito l’eccellenza medica – per cui il Paese è notoriamente conosciuto – a tutti i cittadini, anche durante i periodi più bui.
Un’altra preminenza post rivoluzione, di cui Cuba vanta l’orgoglio agli occhi del mondo, è sicuramente l’istruzione. Fidel Castro, fin dall’inizio della sua presidenza, creò un sistema interamente statale per la formazione e l’istruzione dell’intero popolo cubano. L’educazione è sempre stata una priorità per lo stato governato da Castro. Oggi, grazie a questo intenso programma sociale durato più di quarant’anni, Cuba può vantare il primato, riconosciuto anche dall’Unesco, della quasi totalità di alfabetizzazione tra la popolazione adulta.
El Bloquero, come chiamano l’embargo commerciale ed economico gli abitanti dell’isola, ha visto uno spiraglio di luce verso la fine del 2014, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha manifestato l’intenzione di porvi fine. Purtroppo, per essere effettivamente rimosso il blocco, sarebbe stato necessario anche il voto favorevole del congresso americano, che a causa degli attriti interni della politica statunitense era contrario. Con il nuovo mandato presidenziale statunitense affidato a Donald Trump, gli allentamenti e i dialoghi intrapresi fino a quel momento si sono inaspriti nuovamente.
Nel 1959, Fidel Castro descriveva il razzismo come un elemento da eliminare. Con l’approvazione di leggi fondate sull’uguaglianza sociale, il razzismo a Cuba è pressoché inesistente, nonostante la maggioranza della popolazione discenda dai coloni spagnoli e solo una piccola minoranza sia costituita da mulatti e neri. Da qualche mese, dopo il lungo periodo di presidenza della famiglia Castro, prima con Fidel e successivamente con Raul, a governare il Paese in qualità di presidente è l’ingegnere e accademico Miguel Diaz-Canel. Il fratello del Lider Maximo, però, ha ancora la sua voce in capitolo. Non è uscito di scena, rimarrà ai massimi vertici del Partito comunista ancora per qualche anno.
Una nuova era
Disgraziatamente, nell’ultimo periodo Cuba sta rivivendo lo spettro degli anni Novanta. Lo storico Lopez Oliva sostiene che quella in atto è la crisi più pericolosa dopo la caduta dell’Unione Sovietica. Le quasi duecento sanzioni decise da Donald Trump stanno uccidendo la flebile economia cubana.
Da quando il Venezuela è precipitato nel baratro, è diventato difficile, a volte impossibile, assicurarsi le forniture di petrolio. Le casse del governo sono costrette a sborsare miliardi di dollari per far fronte al fabbisogno energetico.
Nei supermercati iniziano a scarseggiare i generi di prima necessità, nei mercati le verdure hanno raggiunto prezzi proibitivi per i miseri salari del popolo cubano. La gente, ancora una volta, sta cercando di arrangiarsi come può: c’è chi prova a commerciare e a fare affari con i Paesi limitrofi importando tecnologia. In molti, soprattutto nelle località turistiche, hanno convertito le abituali abitazioni in piccoli e modesti bed&breakfast. Alcuni giovani si sono reinventati baristi, altri ristoratori. Sempre al servizio del turismo.
I cubani non sono più quelli di un tempo, sono cambiati anche loro. La globalizzazione ha spezzato i miti della rivoluzione, modificato le priorità, creato nuovi sogni da rincorrere. In questo terzo millennio, la vita sull’isola ha imboccato altre strade: corre sulle frequenze dei network, si rifugia nella musica da discoteca, si distrae in un mojito ghiacciato sorseggiato in solitudine, e si lascia trasportare dall’irreale mondo dei social. I giovani cercano l’Occidente attraverso le scarse connessioni che stanno proliferando ovunque, soprattutto nelle città.
Probabilmente anche questo angolo di mondo sta voltando pagina, si sta affacciando a una nuova era, dove non esistono più le rivoluzioni intraprese dalle vecchie generazioni. Dove la storia passata si accalcherà in un libro, destinato a ingiallire in tempi brevi. Faccio fatica a immaginarmi Cuba senza il baseball giocato tra gli edifici popolari di Baracoa. È inimmaginabile pensare a Trinidad senza le vecchie Buick anni ’50 parcheggiate nel centro storico. Il Malecon, senza una bottiglia di Havana Club da sorseggiare, seduto sul muretto guardando il mare, sarebbe la stessa cosa?
Il reportage fotografico completo nel numero di luglio-agosto del «Messaggero di sant'Antonio» e nella versione digitale della rivista.