Banksy, la protesta al muro
«Quell’opera dovrebbe stare in un museo!» sentenziava Indiana Jones riferendosi all’ennesimo reperto archeologico a cui dava la caccia nell’omonima trilogia cinematografica di Steven Spielberg. Correvano gli anni ’80 e nulla sembrava più appropriato di una sala video-sorvegliata per custodire capolavori. Ma i tempi cambiano. E l’arte con loro. Liberandosi dalle convenzioni, fondendosi al contesto che l’ha partorita, generando reazioni opposte. Testimoni chiave di questa evoluzione sono i graffitari che, a partire dalla New York degli anni ’70, immortalano sui muri il loro disappunto per un sistema viziato e consumistico.
Erede di Taki183, Rammellzee, Keith Haring e Jean-Michel Basquiat è Bansky, il «writer senza identità» che da due decadi gira il mondo provocando l’opinione pubblica a colpi di spray. Proprio per conoscere meglio questo personaggio allergico alle convenzioni, siamo entrati – ironia della sorte – in un museo. Più precisamente, al Mudec di Milano, dove, fino al 14 aprile, è aperta la personale «A visual protest. The art of Banksy», curata da Gianni Mercurio, senza il consenso del diretto interessato. Una mostra non autorizzata sul maestro dell’arte illegale per eccellenza vi sembra un controsenso? Niente paura, è solo il primo di una lunga serie!
Milano, dicembre inoltrato. Mentre fuori la nebbia ovatta via Tortona regalandole un’insolita quiete, dentro al Museo delle culture è in corso una guerra tanto impattante quanto pacifica. Del resto, chi ha detto che la violenza è necessaria per vincere una battaglia? Chiedetelo al manifestante serigrafato nel 2003 (Love Is In the Air - Flower Thrower) che ci accoglie all’ingresso dell’esposizione. Il giovane, volto imbavagliato e testa coperta da un frontino capovolto, sta lanciando qualcosa. Una molotov verrebbe da pensare. Ma più ci avviciniamo all’oggetto misterioso più distinguiamo steli, petali… Che ci fa un mazzo di fiori in mano a un rivoluzionario?
Esposta per la prima volta a una mostra temporanea a Bristol nel 1998, questa immagine di Banksy è un po’ la sintesi di tutta la sua arte. Un simbolo di resistenza pacifica e un inno alla spontaneità. «Mi piace pensare di avere il fegato di resistere in maniera anonima in una democrazia occidentale e pretendere cose a cui nessuno crede più, come pace, giustizia e libertà» ha dichiarato il writer. Per ottenere il suo scopo egli accosta simboli opposti, gioca coi luoghi comuni e mescola i piani. Come quando ritrae due nonnette emblemi della borghesia britannica che sferruzzano due maglioni con su scritto «Punk not dead» e «Thug for life». O come quando fa spuntare sulla testa pelata di Winston Churchill (rielaborando la celebre foto di Yousuf Karsh) una cresta giallo fosforescente, simbolo della protesta anticapitalista scoppiata a Londra nel 2000.
A due passi dallo statista, un giovane visitatore in giacca e cravatta contempla un poliziotto con ali candide e sorriso stampato (Flying copper). Peccato che questo «angelo custode» sia armato di mitragliatore e giubbotto antiproiettile. Chi sta proteggendo chi? Quanto è relativo oggi il concetto di sicurezza? Sembra chiedersi Banksy in questa lampante critica alla militarizzazione. Politici e guardie, borghesi e reali (compresa la regina Vittoria)… Nella sua impietosa analisi della società il writer non risparmia davvero niente e nessuno. Critica lo sfruttamento del territorio e la globalizzazione. Stigmatizza la guerra «sempre sbagliata» che, proprio come una zanzara (Mosquito), succhia il sangue delle persone. Punta il dito contro il mercato dell’arte e il consumismo che intrappola in gabbie di codici a barre. Guai a fidarsi delle apparenze, ammonisce Banksy. Mai silenziare il proprio istinto.
Da qui l’immagine del graffitaro-outsider, in perenne collisione col sistema. Un artista che vive nell’anonimato, si muove nell’ombra ed elude la vigilanza con disinvoltura. Se fosse un animale, il writer sarebbe sicuramente un ratto, suggerisce l’artista. Non a caso le pareti che il Mudec gli ha dedicato brulicano di topi pittori e musicisti, roditori muniti di cartelli di protesta e simboli della pace al collo. I topi, precisa Banksy, «esistono senza permesso. Sono odiati, braccati, perseguitati. Vivono in una tranquilla disperazione, nella sporcizia. Eppure sono in grado di mettere in ginocchio l’intera civiltà».
Tra stampe e dipinti (in tutto un’ottantina), il «Banksy tour» prosegue nel segno della guerra e dei danni che essa ha provocato all’umanità. Per quanto lontano e taciuto, un conflitto non è mai un gioco. Non a caso l’artista immortala provocatoriamente tre signore della borghesia inglese mentre si sfidano a bocce con delle bombe (Bomb middle England). E infiocchetta un elicottero con del nastro rosa (Happy choppers) per enfatizzare il contrasto tra bene e male, vero e falso. In questo scenario nebuloso, il futuro dipende dallo sguardo innocente dei bambini e dalla speranza che solo essi sanno portare. Banksy non ha dubbi e, fin dagli esordi, tratteggia i suoi piccoli «eroi» mentre rincorrono palloncini a forma di cuore (Girl with red balloon), abbracciano ordigni su orizzonti rosa confetto (Bomb love), giocano a pallone con un cartello che lo vieta (No ball games). Volere è potere. E l’immaginazione può quasi tutto.
Rinfrancati da questo slancio di positività, superiamo una parete tempestata di album (a partire dal ’98 l’artista ha illustrato cover di vinili e cd) prima di accedere alla sezione «Memorabilia»: un concentrato di poster e foto sui molti altri progetti di Banksy. Che si tratti di curare un festival (Cans festival), di aprire un parco divertimenti (Dismaland) o un hotel di fronte al muro della separazione di Betlemme (Walled Off Hotel), l’artista non perde mai quel piglio ironico e criptico. Dice una cosa, ma ne intende un’altra.
L’arte è per lui uno strumento di denuncia e lotta. Per questo va sempre immersa nella realtà, a fianco della gente, su cemento, legno e mattoni. Prima di imboccare l’uscita della mostra un’ultima sala ci richiama con insistenza. Alle tre pareti le opere del writer vengono proiettate in loop nel loro ambiente naturale, secondo diverse angolature. Noi restiamo immobili al centro, storditi da tanta potenza visiva. Poi d’un tratto le immagini svaniscono e, nel buio, dal corridoio compare la scritta: «A wall is a very big weapon». Banksy ha ragione. Con buona pace di pistole e compagnia bella, «un muro è davvero una grande arma». Tutto sta a saperla usare nel modo giusto.
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