Cuoche combattenti

Solo riprendendo il controllo delle proprie vite e del proprio reddito, le donne abusate possono rinascere. La storia di Nicoletta Cosentino.
13 Novembre 2019 | di

Nicoletta Cosentino ha 48 anni, un laboratorio artigianale di produzione di conserve e marmellate e un percorso personale difficile alle spalle. Le ci è voluto molto tempo per ammettere di essere vittima di un partner abusante e prendere la decisione di lasciarlo. «Io non mi percepivo come vittima. Ho dovuto ragionarci per prendere consapevolezza che esistono diversi tipi di violenza: c’è quella fisica, ma c’è anche quella psicologica ed economica, con minacce e coercizioni quasi mai esplicite. Un abuso psicologico che porta all’isolamento, a non avere più accesso all’economia della famiglia, a vivere nella paura. Abusi spesso mascherati da amore, protezione, tanto da essere invisibili persino a chi li subisce».

Chi si chiede perché una donna che subisce violenza dal proprio compagno non mette fine alla relazione dimostra di conoscere poco o nulla delle dinamiche che regolano la violenza di genere. Le risposte sono molte e complesse e vanno dalla paura di subire violenze peggiori a quella di non essere credute, dalla convinzione di non poter badare a se stesse a causa dell’autostima distrutta fino al timore di vedersi portare via i figli in una lunga causa legale. Prima che una donna abusata decida di chiudere una relazione tossica occorre che tutti questi ostacoli vengano almeno messi in discussione ed è un processo lungo che molte non arrivano a terminare anche a causa di una forte resistenza culturale. L’espressione «violenza domestica» è infatti un luogo comune nel senso più pieno del termine, perché ad abitarlo sono purtroppo ancora in tanti. Siamo così abituati a leggerla nei fatti di cronaca che ci appare quasi normale che la casa, il posto dove tutti dovremmo essere più al sicuro, sia invece il centro di un fenomeno che – a fronte di tassi di criminalità e violenza mai così bassi nella storia d’Italia – rimane purtroppo invariato per proporzioni e modalità.

Negli anni il numero delle denunce è aumentato, ma alla maggiore fiducia delle donne nelle istituzioni spesso non fa seguito una protezione effettiva: sono ancora troppi i casi di cronaca in cui donne uccise brutalmente da uomini che conoscevano li avevano già ripetutamente denunciati. Gli interventi di legge, compreso lo strombazzato Codice Rosso, sono pochi e mal mirati, perché agiscono nella direzione giudiziaria, lo stadio estremo che arriva quando non c’è più nulla da fare se non perseguire il colpevole.

La violenza di relazione però è un fenomeno culturale che, prima di diventare criminale e condurre ai gesti più estremi, passa per una normalità apparente fatta di stereotipi di genere, dislivelli di potere, ingiustizie quotidiane e dinamiche di controllo della libertà delle donne che sono ancora troppo tollerati nella società italiana. È su questi che occorre agire con interventi educativi sin dai primi gradi della scuola, dove però si incontrano ancora troppe resistenze da parte delle famiglie, forse timorose di veder messa in discussione la struttura tradizionale dei ruoli. Nessun padre vuole sentirsi giudicato dai propri figli perché non si toglie nemmeno il piatto dal tavolo e pretende dalla figlia comportamenti diversi rispetto al figlio. E quale madre vuole vedersi portare a casa un conflitto simbolico sui ruoli di genere, se fino a quel momento non è stata lei stessa ad aprirlo?

Anche sul fronte della presa in carico delle situazioni più estreme c’è però molta carenza di realismo da parte delle istituzioni che continuano a occuparsi molto di più del carnefice che non della vittima. Una delle ragioni per cui le donne sopportano dai partner violenti molto più di quanto sarebbe tollerabile è perché banalmente non saprebbero dove andare né come guadagnarsi da vivere. La mancanza di autonomia economica è alla base di molti rapporti violenti, perché la vittima e i suoi figli dipendono dal carnefice per tutte le loro esigenze e in assenza di alternative. Le case rifugio sono troppo poche e la permanenza che consentono è comunque temporanea. Non ci sono percorsi istituzionali sistematici che garantiscano un tetto stabile e un reddito di copertura alle donne oggetto di violenza e le uniche risposte minimamente articolate vengono dalle reti femministe che lavorano intorno ai centri antiviolenza, anch’essi finanziati dallo Stato in modo scarso e intermittente.

La storia di Nicoletta Cosentino in questo quadro fa eccezione e invece dovrebbe rappresentare la norma, perché solo riprendendo il controllo delle proprie vite e del proprio reddito le donne abusate potranno uscire dalla condizione di vittima ed entrare finalmente in quella di persone libere. Quando Nicoletta ha deciso di lasciare il partner ha avuto, infatti, oltre all’accoglienza del centro antiviolenza di Palermo, due fondamentali opportunità: seguire un corso di formazione professionale e ottenere – grazie al supporto della rete Di.Re – la copertura per un piccolo prestito da Banca Etica che le ha consentito di avviare l’attività di produzione delle conserve. L’etichetta «Cuoche combattenti» oggi ha due anni e Nicoletta, ora imprenditrice, vi ha coinvolto altre otto donne scampate alla violenza dei partner.

La sua storia dimostra che, se davvero lo Stato vuole affrontare la violenza di genere, punire le colpe degli uomini abusanti è molto meno urgente che investire nella costruzione della libertà delle donne. Non serve chiedersi come si può fare: le donne insieme lo stanno facendo già.

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant’Antonio»!

Data di aggiornamento: 13 Novembre 2019

Articoli Consigliati

Uccise due volte

15 Aprile 2019 | di
Lascia un commento che verrà pubblicato