Eugene Smith e la città industriale
C’è stato un tempo in cui le città assomigliavano alla fucina di Efesto, il dio greco del fuoco. Ferro e acciaio, fumo e scintille. Era l’età d’oro dell’industria. Un trionfo di luci e vapori che si specchiavano nelle acque dei fiumi, sui vetri dei grattacieli, negli occhi alienati degli operai. La Seconda guerra mondiale era da poco terminata e forte si avvertiva la necessità di voltare pagina, di aprirsi al progresso e rialzarsi più forti di prima. A fare da apripista fu Pittsburgh, in Pennsylvania (USA), un antico avamposto franco-inglese situato nel punto in cui i fiumi Allegheny e Monongahela s’incontrano e formano l’Ohio.
Proprio alla prima metropoli manifatturiera della storia è dedicata la mostra fotografica «W. Eugene Smith: Pittsburgh. Ritratto di una città industriale», fino al 16 settembre alla Fondazione Mast di Bologna. A firmare le 170 stampe ai sali d’argento esposte, tutte di proprietà del Carnegie Museum of Art di Pittsburgh, è appunto il grande fotografo americano (Wichita, 1918 - Tucson, 1978) alla sua prima personale in Italia. Si tratta, in realtà, di un’esigua selezione rispetto all’immane reportage che impegnò Smith per oltre tre anni (dal 1955 al 1957) e che rimase incompiuto, nonostante i quasi ventimila negativi prodotti.
Solitario, scontroso e oltremodo perfezionista, Smith non riuscì mai a coronare il sogno di produrre un libro su Pittsburgh. Ai 13 mila dollari offertigli da «Life» per i diritti dell’intero servizio, il reporter preferì le trentasei pagine riservategli da «Photography Annual» nel 1959. In ogni caso, fu una sconfitta per il maestro della camera oscura, che, pur «senza soldi e in precarie condizioni di salute», si era gettato anima e corpo nell’impresa, a suo dire, «di proporzioni non inferiori a quelle dell’opera di una vita intera». Niente di strano dunque se ancora oggi, a oltre mezzo secolo da quando furono scattate, le sue foto appese alle pareti del Mast vibrano di attualità in un costante dialogo col presente. «Ritrarre una città è un compito senza fine» osservava Eugene Smith. Un compito che si tramanda di generazione in generazione e che, proprio per questo, ci riguarda un po’ tutti.
Indagare la modernità
Una grande porta a vetri si apre su una scalinata grigia. Tutt’intorno superfici candide e frasi scritte alle pareti. A rafforzare l’impressione di rigore, le grate al pavimento che soffiano una brezza gelida. In un attimo stiamo già calcando uno di quei marciapiedi di Pittsburgh che per anni Eugene Smith percorre in lungo e in largo con la fedele macchina fotografica sempre al collo. Viene da un periodo burrascoso l’artista. Ha appena rotto i ponti con «Life» a causa di un diverbio, dopo sette anni di collaborazione e una logorante esperienza da inviato di guerra.
È il 1955 quando Smith entra a far parte della scuderia Magnum e accetta l’incarico di realizzare un centinaio di scatti di Pittsburgh. La puntualità, però, non è il suo forte. I due mesi di lavoro preventivati diventano ben presto tre anni. Più che un semplice reportage fotografico, Smith intraprende un viaggio storico-antropologico alle radici dell’industrializzazione. Ritrae cartelli stradali, fabbriche viste dall’alto, operai al lavoro nelle acciaierie, donne che attendono all’angolo di una via e bambini di colore che giocano sui marciapiedi.
Ogni scatto è un’istantanea di quotidianità, ogni stampa un distillato di energia vitale. Smith mette a fuoco aree residenziali, depositi e ponti ferroviari per parlare di chi li abita e li vive ogni giorno. Che cosa sarebbe, del resto, una biblioteca senza i suoi assidui frequentatori che, senza neppure levarsi il cappello, leggono il giornale in piedi? E che senso avrebbe lo scorcio di un’acciaieria senza l’operaio che prepara le bobine o quello che mescola il metallo fuso? Per Eugene Smith la città è «un organismo vivo, un ambiente fatto per le persone e, a sua volta, creato dalle persone, che gli danno cuore ed energia vitale».
Al fotografo, dunque, non resta che osservare gli attori di questa pièce attraverso la lente, evitando di invadere la loro sfera privata. E così, dosando contrasto ed esposizione, Smith sbozza dall’oscurità le figure con l’aiuto della luce. Il risultato è una composizione carica di pathos, spesso cupa e suggestiva. Il maestro miscela bianchi e neri generando un’infinita gamma di grigi. Poi, come un pittore, tratteggia notti stellate artificiali, lampioni che sembrano piccole lune tra le ciminiere e colate di metallo da far invidia a quelle (laviche) di un vulcano.
Mentre percorriamo le quattro sale della mostra, incrociamo scioperanti vestiti con i cartelli della protesta, forgiatori con gli occhialoni e donne al comando di macchine industriali. Smith documenta il sudore e il sacrificio. Poi, di tanto in tanto, libera l’ironia e inquadra una quotidianità più lieve. Tra i grandi magazzini e il mercato cittadino, il ballo studentesco, il consiglio comunale e la chiesa di Saint Michael’s a South Side, nel reportage c’è posto anche per una coppia che spinge un passeggino, alcuni operai che giocano a carte, una donna che si lancia dal trampolino e un’altra che si sgola nel coro della chiesa battista tra Kirkpatrick e Wylie.
Sacro e profano convivono a Pittsburgh come in una Babele di vizi e virtù. «Tra tutti i miei viaggi, tutte le esperienze, raramente ho avvertito le contraddizioni in maniera così acuta» ammette Eugene Smith che, nella sua lunga e tormentata analisi, cercherà sempre di mantenere uno sguardo obiettivo. La fotografia è la sua vita e lo assorbe completamente. Attraverso di essa il maestro indaga la verità e l’assoluto. «Non conosco nessun fotografo che lavori o pensi attraverso la fotografia come faccio io» dirà. Non a caso il reporter – segnato dal suicidio del padre e dalla personalità ingombrante della madre – lascerà moglie e figli per trasferirsi nel Flower district di New York, in un palazzone fatiscente frequentato da musicisti jazz.
Lui che ha collaborato con le maggiori testate nazionali («Time», «Look», «Life») sacrifica ogni sicurezza affettiva ed economica per quella ricerca di autenticità che diverrà il fulcro della sua vita. «Sto cercando ciò che è veramente reale nel mio cuore: e quando l’avrò trovato, potrò stargli umilmente a fianco e dire: “Ecco qui, questo è ciò che sento, questa è la mia onesta interpretazione del mondo; e non è influenzata dal denaro, da inganni o pressioni – tranne la pressione della mia anima”». Neppure diversi anni dopo aver affidato alla carta questa confessione, quando nel 1971 si trasferisce prima in Giappone e poi in Arizona, le priorità di Smith cambiano. A quarant’anni dalla sua morte, la personale allestita al Mast conferma ancora una volta la sua grandezza. La grandezza di un artista che affrescò un’epoca, un acuto osservatore dell’umanità al quale oggi siamo tutti debitori.